Diritti / Approfondimento
I grandi marchi della moda non pagano ancora salari dignitosi ai lavoratori
Clean Clothes Campaign ha analizzato le buste paga di 490 lavoratori in 19 stabilimenti in Cina, India, Indonesia, Ucraina e Croazia. Delle 108 ditte e rivenditori intervistati, nessuno garantisce un salario minimo ai suoi dipendenti. Nell’elenco anche Benetton e Calzedonia
I grandi marchi della moda non garantiscono ancora un salario dignitoso ai lavoratori delle proprie catene di fornitura. Torna a denunciarlo il rapporto “Fuori dall’ombra: riflettori puntati sullo sfruttamento nell’industria della moda”, realizzato dalla Clean Clothes Campaign, network globale composto da 234 organizzazioni che lavorano per esercitare pressione verso imprese e governi affinché assicurino il rispetto dei diritti dei lavoratori della fast fashion. La ricerca è stata realizzata attraverso questionari inviati a 108 marchi e rivenditori in 14 Paesi e mediante interviste a 490 lavoratori, di cui sono state analizzate le buste paga, in 19 diversi stabilimenti in Cina, Indonesia, India, Ucraina e Croazia. Tra i brand analizzati H&M, Adidas, Gap e gli italiani Benetton, Calzedonia, Gucci, Geox, Falc, OVS e Salew.
Il report evidenzia che nessuno dei 108 marchi è in grado di fornire riscontri che provino una retribuzione dignitosa dei lavoratori impiegati nelle ditte cui è subappaltata la produzione. Calzedonia -che possiede anche Intimissimi, Tezenis, Falconieri, Signorvino e Atelier Eme- non ha fornito elementi per provare che i suoi fornitori stanno pagando un salario minimo ai loro dipendenti. Benetton Group, multinazionale proprietaria dei marchi Sisley, United Colors of Benetton e Undercolors, non si è impegnato pubblicamente a garantire che sia pagato un salario di sussistenza in tutta la sua filiera. Gucci ha dichiarato che più del 50% dei suoi fornitori paga un salario minimo ai sui dipendenti ma non ha fornito prove concrete al riguardo.
“I salari di povertà continuano ad essere un problema sistemico nell’industria dell’abbigliamento, spesso nascosto in profondità all’interno di catene di fornitura complesse e segrete. Una situazione ulteriormente peggiorata durante la pandemia di Covid-19 quando marchi come Arcadia, Bestseller, C&A, Primark e Walmart (Asda) hanno deciso di annullare ordini e imporre sconti ai fornitori, lasciando così i lavoratori senza gran parte dei salari”, si legge nel rapporto. Durante i mesi del lockdown, da marzo a maggio, in sette Paesi del Sud e Sud-Est asiatico (Sri Lanka, India, Bangladesh, Myanmar, Pakistan Cambogia, Indonesia) i lavoratori hanno ricevuto strutturalmente il 38% in meno di quanto gli spettasse. In alcune delle regioni dell’India, la percentuale è andata oltre il 50%. Se questi numeri sono rapportati all’industria mondiale dell’abbigliamento, escludendo la Cina, la cifra dei salari dovuti ai lavoratori si attesta tra 3,19 e 5,78 miliardi di dollari.
“Fuori dall’ombra” ha rivelato che i lavoratori sono spesso costretti a raggiungere quotidiani obiettivi di produzione “irrealistici” che richiedono una giornata lavorativa più lunga rispetto a quella retribuita. I dipendenti intervistati di una ditta a Shahi, in India, hanno dichiarato che per potere raggiungere gli obiettivi quotidiani devono ridurre la pausa pranzo e gli intervalli per andare in bagno. “Il mio lavoro è estenuante. Ogni giorno devo lavorare 18 ore. Molti non riescono a portare a termine gli obiettivi giornalieri che impone l’azienda e sono licenziati. Devo lavorare senza fermarmi per mantenere il posto”, è la testimonianza di un lavoratore cinese. Inoltre le ore di straordinario non sono sempre conteggiate nella busta paga. In Cina tutti i lavoratori intervistati hanno affermato di svolgere più di cento ore mensili di straordinario ma solo due dipendenti hanno guadagnato un importo pari al salario minimo, nonostante il monte ore complessivo accumulato. Il 50% dei dipendenti ha affermato di lavorare 27 giorni al mese e più del 20% di farlo 30 giorni al mese.
La ricerca di Abiti Puliti ha evidenziato una discriminazione di genere nei salari. In India, per esempio, le donne percepiscono uno stipendio mensile di 7.959 rupie contro le 9.053 rupie guadagnate dai colleghi: circa l’88% di quanto guadagna un uomo. Nessuna delle aziende intervistata nel rapporto ha fornito prove o informazioni pubbliche sui divari retributivi di genere complessivi nella propria catena di fornitura. Un problema strutturale perché il settore dell’industria dell’abbigliamento, aggiunge il report, è occupato principalmente da donne che rappresentano circa l’80% della forza lavoro totale. Sono preferite come dipendenti perché “i datori di lavoro traggono vantaggio dagli stereotipi culturali, cui le donne sono costrette ad aderire, che le presenta come remissive e disposte ad adattarsi alle circostanze”. In fabbrica spesso sono vittime di abusi verbali, violenze e molestie sessuali. Subiscono discriminazioni quando hanno una famiglia oppure se decidono di avere figli.
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