Diritti / Approfondimento
I campi di confinamento voluti dall’Unione europea per bloccare i migranti
Dalla “crisi dei rifugiati” del 2015 in avanti le istituzioni europee hanno finanziato la costruzione di decine di campi, sia in Stati membri sia in Paesi terzi, in cui confinare le persone che cercano protezione. Il 7 e 8 maggio RiVolti ai Balcani organizza un convegno internazionale per rompere il silenzio
Nella strategia di esternalizzazione europea nei confronti di migranti e richiedenti asilo c’è un tema molto meno affrontato rispetto al tragico capitolo dei respingimenti. Si tratta dei campi di confinamento: dalla Turchia alla Grecia, passando per la Serbia, la Macedonia del Nord e la Bosnia ed Erzegovina, l’Unione europea ha intensificato, dopo la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, la costruzione di “campi” e “centri” in cui rendere invisibili e confinare le persone che raggiungono -o vorrebbero farlo- l’Europa per chiedere protezione. “Molto si è detto dei respingimenti di coloro che tentano di arrivare sul territorio europeo, meno invece si è parlato del confinamento di queste persone sia nei Paesi terzi sia in quelli europei -spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Si è sempre pensato si trattasse di cattiva accoglienza ma non è così, i campi sono un corollario della strategia di esternalizzazione europea”.
Per rompere il silenzio la rete RiVolti ai Balcani ha quindi organizzato per sabato 7 e domenica 8 maggio il convegno internazionale “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione europea” che si svolgerà in presenza e in diretta online al Centro Ernesto Balducci di Zugliano (Udine).
I luoghi di confinamento vengono definiti con diversi nomi a seconda delle presunte finalità. “Si chiamano centri di detenzione, ad esempio, quando i governi vogliono mostrare i ‘muscoli’ -osserva il ricercatore Mark Akkerman, autore del report ‘Esternalizzare l’oppressione’ pubblicato nell’aprile 2021 dal Transational institute-. Mentre vengono utilizzate le definizioni di ‘accoglienza’ e ‘transito’ quando si vuole dare un’idea più umana. Ma è un’etichetta falsa, il termine ‘accoglienza’ nasconde in realtà le violazioni dei diritti fondamentali che si realizzano in quei campi. La direzione dell’Ue è chiara: tenere lontane le persone dal suo territorio”. Lo studio di Tni ricostruisce i finanziamenti erogati dalle istituzioni europee per la costruzione di campi e centri di detenzione in 22 Paesi: non solo in Europa ma anche in Africa e in Asia occidentale, per un “totale” di centinaia di milioni di euro.
In questo quadro ai Paesi che desiderano entrare a far parte dell’Ue viene chiesto di fare il “lavoro sporco”. Attraverso i cosiddetti fondi di assistenza pre-adesione (Ipa), le istituzioni europee dettano l’agenda in materia di gestione del fenomeno migratorio spingendo i governi a favorire politiche di confinamento e respingimento. Il caso di scuola è la Turchia. Dopo la “dichiarazione di intenti” del 16 marzo 2016 con cui il Consiglio europeo decideva di spostare il “peso migratorio” verso le coste turche, stabilendo che qualsiasi persona che raggiungeva irregolarmente la Grecia sarebbe stata rimpatriata, l’Ue ha erogato fondi per la costruzione di centri di espulsione e campi in cui “accogliere” i rifugiati. Nel giugno 2021 la Commissione europea ha deliberato il finanziamento al governo turco di ulteriori 30 milioni di euro per il capitolo di gestione della migrazione sottolineando come l’Ue abbia supportato negli anni “la costruzione di sette centri di detenzione, con una capacità di 5.250 persone, nell’ambito dell’Ipa I, la ristrutturazione di 11 centri esistenti e la progettazione e la costruzione di sei nuovi centri con una capacità di 2.400 persone nel quadro dell’Ipa II”. Secondo le stime del ministero dell’Interno turco questi nuovi centri, che saranno operativi entro la fine del 2022, aumenteranno la capienza delle 33 strutture a circa 19.908 persone.
Il trattenimento pre-espulsione degli “irregolari” in Turchia è diretta conseguenza dell’impossibilità di raggiungere il territorio dell’Ue regolarmente, con gravi conseguenze sui diritti delle persone. “La Turchia resta un Paese non sicuro per chi cerca protezione, con standard di sicurezza e rispetto dei diritti umani che non sono adeguati -spiega Adriana Tidona, ricercatrice di Amnesty international-. Abbiamo osservato tra il 2018 e il 2020 significative problematiche nell’ambito delle condizioni dei migranti e rifugiati sul territorio turco, soprattutto afghani e siriani”. Nell’ottobre 2019 Amnesty ha raccolto nel report “Sent to a war zone” oltre 20 testimonianze di deportazioni illegali di rifugiati dalla Turchia verso la Siria, spesso con un utilizzo pretestuoso ed abusivo dello strumento del rimpatrio volontario. “Molte delle persone deportate venivano fermate per strada e poi espulse con la scusa di trovarsi fuori dalla circoscrizione in cui erano residenti -continua Tidona-. In diversi casi documentati da Amnesty, i cittadini siriani sostengono di essere stati obbligati a firmare una dichiarazione di ritorno volontario verso il proprio Paese, dietro intimidazione o violenza. Le autorità turche sostengono invece che centinaia di migliaia di persone abbiano scelto di tornare volontariamente”. Un copione che si è ripetuto, nuovamente, nei confronti dei rifugiati afghani presenti in Turchia o che hanno tentato di accedervi in seguito all’installazione del regime talebano nell’agosto 2021: raid di arresti e trattenimenti in centri di detenzione, espulsioni e respingimenti al confine con l’Iran, denunciati nuovamente da Amnesty nello studio dell’ottobre 2021 “Afghanistan: like an obstacle course”.
Risalendo dalla Turchia verso il cuore dell’Europa, la strategia del “do ut des” dell’Ue non cambia. Anzi, si affina. Dall’inizio del 2018 in avanti, migliaia di persone hanno tentato di raggiungere l’Ue passando anche dal Cantone di Una-sana, territorio bosniaco al confine con la Croazia. In quei luoghi lo strumento del “campo” dislocato in un Paese terzo come strumento di confinamento degli indesiderati e di presunta deterrenza per chi si mette in viaggio è stato sfoggiato con “orgoglio” dalle istituzioni europee. Nato in seguito all’incendio del primo campo -avvenuto nel dicembre 2020 con conseguenze umanitarie disastrose per le persone che ci vivevano- il nuovo “Temporary reception centre” di Lipa, località a ridosso del confine, è stato inaugurato a metà novembre 2021 con una capienza 1.500 posti, costruito a 800 metri di altitudine e a quasi 25 chilometri dal primo ospedale. “Un campo posizionato lontano dall’area urbana, così che le persone rinchiuse non abbiano contatto con la popolazione locale e non vi sia interazione -spiega la ricercatrice Gorana Mlinarevic-. Ma anche per far sì che in pochi conoscano la reale condizione di vita delle persone”. Un centro definito “temporaneo”, perché le persone vengono ospitate senza un reale progetto di integrazione ma solamente nell’attesa che riescano a passare il confine.
La gestione del campo è nei fatti demandata all’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) e proprio il ruolo delle organizzazioni internazionali in questi centri è un altro tassello fondamentale nella strategia del confinamento. “Penso che l’Oim sia solo un’organizzazione che fa il lavoro sporco per l’Ue nella cosiddetta gestione della migrazione -continua Mlinarevic-. Da sempre l’organizzazione decide tutto: chi va nei campi, chi non ci va, dove costruirli e come farlo. È indicativo che le istituzioni europee, quando sono aumentate le persone in transito nel Paese, non abbia coinvolto sistematicamente l’Alto commissariato delle nazioni unite (Unhcr), che ha il mandato di proteggere le persone bensì l’Oim, finanziato con più di 80 milioni di euro ma con un compito molto meno chiaro”.
Per Mlinarevic, una delle curatrici del report “In between: (un)welcome to no man’s land” pubblicato nel marzo 2022, la presenza dell’Oim nel campo fornisce all’esterno la “presunzione che ci sia un determinato standard di rispetto dei diritti fondamentali, perché è un organo delle Nazioni Unite”. Ma secondo la ricercatrice non è così. “Quando nel 2018 cominciavamo a parlare di respingimenti violenti al confine con la Croazia, l’Oim negava. Tra il 2018 e il 2020 l’Agenzia ha appaltato a una società privata la sicurezza del campo. Gli ospiti ci hanno segnalato le violenze subite. Avevamo registrazioni e filmati, l’Oim ha sempre negato. A questo si aggiunge che hanno accesso ai campi solo le organizzazioni finanziate dall’Ue: non ci sono organi ‘terzi’ che monitorano il rispetto dei diritti umani”. Un problema ancora attuale, nonostante sulla carta il nuovo centro di Lipa sia gestito dal Servizio per gli affari esteri (Sfa), in seno al ministero della Sicurezza bosniaco: “La maggior parte dei dipendenti che lavorano nel Centro sono assunti dall’Oim, mentre l’Ue copre i loro stipendi”, si legge nel report.
In Macedonia del Nord, invece, sono due i campi di confinamento attivi: uno al ridosso della frontiera con la Serbia, l’altro al confine con la Grecia. Sono stati istituiti in seguito alla “crisi” legata all’afflusso dei siriani dal 2015 in avanti. “Fin dalla loro istituzione sono stati immaginati e funzionano come veri e propri punti di controllo dei corpi in entrata e in uscita dal Paese e che non è chiaro il tempo di permanenza all’interno di essi, che può variare da alcuni giorni a diversi mesi -spiega l’avvocata Ivana Stojanova, socia Asgi-. La particolarità è che non hanno nessun ‘fondamento’ giuridico. Esistono solamente in virtù dello Stato d’emergenza proclamato in quegli anni e che perdura, senza motivi validi, ancora oggi”. Finanziati nuovamente tramite fondi IPA, anche in questo caso sono gestiti con il contributo dell’Oim. I campi sono molto differenti l’uno dall’altro. Se a Tabanovce, al confine con la Serbia, le persone sono libere di muoversi, in quello di Vinojug, a meno di 500 metri dalla frontiera con la Grecia, il centro è di fatto un centro di detenzione. “All’interno troviamo persone fermate in prossimità del confine greco, che verranno riammesse in Grecia, persone fermate sul territorio nazionale in condizioni di soggiorno irregolare e infine cittadini cubani e indiani in attesa di essere riammessi in Serbia da dove si presume siano entrati -continua Stojanova-. Con la scusa della lotta al contrabbando dei migranti, alcune persone, sia adulti sia minori, vengono trattenuti all’interno di questo campo per diversi mesi e in condizioni disumane, fino a quando non denunciano il trafficante”.
Solo cattiva accoglienza? “No. Nei Paesi descritti è una ‘cattiva accoglienza’ necessaria -spiega Schiavone-. Non può essere buona, per diversi motivi. L’obiettivo è infatti parcheggiare queste persone lontane dal territorio dell’Ue. Diventano un ‘nessuno’ dal punto di vista giuridico la cui libertà non è limitata dalla legge ma da strumenti operativi: si posizionano i campi in luoghi inaccessibili, con orari irragionevoli che limitano la possibilità di uscire. L’informalità nel trattenimento descritta è l’escamotage perfetto per raggiungere operativamente l’obiettivo prefissato: fermare le persone per un periodo indefinito senza garantire il rispetto dei loro diritti”.
Il confinamento non si realizza soltanto nei Paesi extra europei e soprattutto non riguarda esclusivamente chi è “invisibile” dal punto di vista giuridico. La Grecia, in questo senso, rappresenta un caso esemplare dell’utilizzo dei campi: sia per i cosiddetti migranti irregolari sia per i richiedenti asilo. Il campo diventa una vera e propria forma di (non) accoglienza anche per chi ha un titolo valido di soggiorno. “Da un lato, c’è una privazione crescente nell’accesso ai diritti, anche per chi ottiene la protezione internazionale e spesso continua a dover vivere nei campi senza reale possibilità di ricostruirsi una vita -spiega Martina Tazzioli ricercatrice del Goldsmiths college di Londra-. Dall’altro la paradossale sottrazione di ogni forma di assistenza: a meno autonomia non corrisponde quindi una maggior dipendenza ovvero il supporto umanitario. E sempre di più si sta restringendo. Il tentativo da parte del governo greco, con il pieno sostegno dell’Ue, penso sia quello di limitare non solo il numero di persone che accedono alla protezione ma proprio rendere più difficile l’accesso ai diritti fondamentali”. È il diritto a piegarsi alla prassi e non viceversa.
Lo dimostra il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, presentato dalla Commissione europea nel settembre 2020, che introduce la cosiddetta “finzione di non ingresso”: la persona che supera irregolarmente il confine di uno Stato viene considerata ancora presente, giuridicamente, nel Paese che ha appena abbandonato fisicamente. “Un’invenzione giuridica sbalorditiva -conclude Schiavone-. Significa fingere che la persona non sia sul proprio territorio quando in realtà lo è. Si dilata il concetto di ‘frontiera’ perché si possono trattenere le persone anche in luoghi distanti chilometri dal confine. Con il ‘vantaggio’ che diminuiscono le garanzie: se non ha accesso alla protezione, a un valido titolo di soggiorno, potrò rimpatriarlo dopo un periodo di trattenimento, più o meno lungo, come se non avesse mai fatto ingresso nel Paese”. La Grecia è stata pioniera a riguardo. “Nell’hotspot di Moria, a Lesvos, le persone provenienti da certi paesi le persone provenienti da certi Paesi, dichiarati ‘di origine sicura’ dall’esecutivo di Atene, venivano rinchiusi in una sorta di ‘campo dentro il campo’ senza accesso a internet e con scarse condizioni igieniche -continua Tazzioli-. La loro richiesta d’asilo veniva dichiarata inammissibile e in breve tempo venivano riammesse in Turchia. Senza contatti con l’esterno”. Il confinamento diventa così lo strumento principe per gettare nell’invisibilità gli indesiderati: lontano dagli occhi di tutti, sempre di più nel rispetto di leggi che si modificano per rendere “legittime” prassi crudeli.
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