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Esteri / Reportage

I cambiamenti climatici peggiorano le condizioni di vita in Madagascar

Daniel, pescatore di Anako, villaggio a Sud del Madagascar. Per la sua come per molte altre famiglie, la pesca è mezzo di sostentamento essenziale, tuttavia è messa sempre più a rischio dalle “navi straniere” e dal cambiamento climatico © Luca Rondi e Martina Cociglio

Nel Paese più di 1,5 milioni di persone soffrono di grave insicurezza alimentare: la pesca, una delle principali fonti di reddito per la popolazione, è sempre meno redditizia. Anche a causa della presenza di pescherecci stranieri

Tratto da Altreconomia 261 — Luglio/Agosto 2023

“Negli ultimi anni tutto è sempre più difficile. Usciamo meno in mare e dobbiamo allontanarci molto di più dalla costa, ma con le nostre piroghe è difficile. E poi sempre di più troviamo solo pesci di piccola taglia: oltre la barriera corallina, le grandi navi straniere saccheggiano i nostri mari”. Daniel, 25 anni, fa il pescatore da quando ne aveva 15 e sospira alla domanda sull’andamento della sua attività. Come per gli oltre 2.400 abitanti di Anakao, un villaggio nel Sud del Madagascar affacciato sul canale di Mozambico, anche per il giovane e la sua famiglia la pesca è l’unica forma di sostentamento, spesso insufficiente. Da un lato il ruolo delle “navi straniere”, dall’altro gli effetti del cambiamento climatico. “Climate change? Non capisco”, risponde. Daniel osserva le conseguenze del clima che cambia, ma racchiudere sotto un’unica etichetta le difficoltà che ogni anno aumentano è complesso, un esercizio inutile.

Sugli oltre 5.600 chilometri di costa dell’isola africana, la quarta più grande al mondo, l’80% delle risorse marittime si concentrano sul versante occidentale. L’oceano Indiano sta diventando sempre più tempestoso: le comunità che si affacciano sul canale del Mozambico dal 1979 al 2020 hanno perso in media 800 ore di pesca all’anno a causa dei cambiamenti metereologici. A ricostruirlo, dati alla mano, è una ricerca curata da Cornelia E. Nauen, presidente dell’Ong Aquatics, che si occupa di fornire statistiche accurate sulle risorse ittiche. È lei ad aver ricavato queste stime dall’analisi dell’isola di Nosy Barren, sempre sulla costa occidentale del Paese ma più a Nord rispetto ad Anakao, dove la ricercatrice stima che gli effetti siano ancora più negativi. “Le comunità nel Sud-Ovest del Madagascar hanno già percepito un aumento del maltempo che ha ridotto le loro capacità di pescare: probabilmente risentono maggiormente dei cambiamenti delle condizioni meteorologiche avverse anche perché usano pescherecci non motorizzati”, si legge nella ricerca.

Sulla spiaggia di Anakao ce ne sono centinaia. Il popolo vezo, che vive nell’area, utilizza canoe tradizionali: delle piroghe di legno lunghe dai tre ai quattro metri, con un albero a cui si appende la vela fatta di sacchi di iuta cuciti l’uno all’altro, mentre un “braccio” aiuta a dare stabilità all’imbarcazione.

Anche perché, come detto, negli ultimi anni i pescatori devono spingersi al limite della barriera corallina per riuscire a pescare. Un’attività che, secondo i dati del Ministero malgascio dell’agricoltura, dell’allevamento e della pesca (Maepm) nel 2019, garantiva l’accesso al cibo a oltre un milione di persone, ma che non viene tutelata dalle istituzioni. Nel novembre 2020 lo stesso Maepm e la società malgascia Côte d’Or, con dieci azionisti cinesi, hanno siglato due protocolli che consentono a circa trenta pescherecci appartenenti a investitori cinesi di sfruttare le risorse ittiche: sia attraverso reti da traino, sia nasse e palangari. Con impatti devastanti sulla biodiversità marittima che, di conseguenza, incidono anche sulla disponibilità di pesce per l’alimentazione della popolazione locale: un problema che colpisce diversi Paesi africani, dal Madagascar al Senegal.

La canoa di Daniel si stacca dalla riva ogni mattina alle quattro, quando il sole spunta e rientra alle nove, mentre il turno serale comincia alle 18 e finisce a mezzanotte: parte del pescato quotidiano viene consumato dalla famiglia e in parte viene rivenduto ai pastori che nelle terre antistanti al villaggio pascolano gli zebù, bovino simbolo dell’isola africana con gobba e grandi corna.

“Nei mesi buoni vendiamo pesce per circa 80mila ariary (la moneta locale, ndr) -spiega Daniel-. A questo si aggiunge, in quelli estivi, l’introito portato dal turismo che però dipende dalla stagione e dalle annate. Ma la vita è difficile”. E lo è sempre di più, anche a causa dell’aumento dei prezzi in tutto il Paese a partire dallo scoppio della pandemia da Covid-19: nel 2020 un chilo di riso costava 1.500 ariary, oggi 3.500. “In media una famiglia di tre persone ne consuma circa 50 chili al mese –spiega Jacquette Harinjara, coordinatrice dei progetti di Koinonia a Fianarantsoa, la terza città del Paese-. A fronte di stipendi che non crescono, un simile aumento è devastante”.

Il salario medio, per i pochi che hanno una retribuzione fissa, si aggira intorno ai 300mila ariary ma non basta: “Solo l’affitto di una casa con due stanze, cucina e gabinetto in strada costa 150mila ariary al mese -continua- cui se ne aggiungono 200mila per acqua ed elettricità e 45mila per l’acquisto del carbone per cucinare”.

Razaka è il nuovo capo del villaggio di Sahavondronina, nel Madagascar centro-meridionale. Qui nel 2008 è stato avviato un progetto per il rimboschimento delle aree limitrofe al parco nazionale di Ranomafana © Luca Rondi e Martina Cociglio

Così la povertà nel Paese dilaga. Nel gennaio 2023, secondo l’Integrated food security phase classification (Ipc), più di 1,5 milioni di malgasci soffrono di grave insicurezza alimentare mentre sono 3,9 milioni le persone che, secondo le Nazioni Unite, necessitano di assistenza nel Sud del Paese, colpito a inizio 2023 dal ciclone tropicale Freddy che ha causato morte e distruzione. “È questa la fotografia che dobbiamo tenere a mente quando parliamo di lotta al cambiamento climatico in Madagascar -spiega Enrico Fiorese, che ha vissuto più di dieci anni sull’isola seguendo le attività del progetto Voiala, che si occupa di tematiche ambientali-. Nel villaggio in cui realizziamo i programmi fino a una decina di anni fa si cucinava senza il sale né olio. Capitava di mangiare patate dolci tre volte al giorno. Questo tipo di quotidianità a volte non ti permette di guardare oltre: per poterlo fare devi avere un surplus, economico o culturale. In caso contrario è difficile farlo”.

Qualcuno, però, ci prova ugualmente. Succede a Sahavondronina, un piccolo villaggio di circa 700 abitanti nella provincia di Fianarantsoa nel Madagascar centro-meridionale che confina con il parco nazionale di Ranomafana, uno dei più importanti del Paese con oltre 470 chilometri quadrati di foresta pluviale. Qui nel 2008 Koinonia Madagasar e l’associazione Averiko (attive nella cooperazione, hanno dato vita a un progetto di rimboschimento con la benedizione del capo del villaggio, Razozy, e la costituzione di un’associazione locale (Voi-3Ft). “L’obiettivo era la conservazione: il parco confinante, tutelato dal governo e con la presenza di diversi centri di ricerca era già protetto, ma appena fuori, nei villaggi che lo circondano, la deforestazione era feroce”, continua Fiorese.

Quindici anni dopo quel sogno è diventato realtà. “Grazie all’aiuto delle associazioni gestiamo circa duemila ettari di foresta con cinque gruppi di controllori che si alternano per verificare la salute delle piante e gestire il rimboschimento -spiega Razaka che ha assunto il ruolo di capo del villaggio dopo la morte di Razozy-. Con il passare degli anni la situazione è migliorata. Più di due terzi della popolazione ha capito perché è importante ‘salvare’ la foresta e non brucia più gli alberi seguendo anche un’attenta strategia di semina che vede ogni anno la piantumazione di circa tremila nuove piante”. Quello della deforestazione, in Madagascar, è un problema enorme: dal 2000, infatti, il Paese ha perso 4,85 milioni di ettari di copertura arborea, capaci di assorbire 2,5 gigatonnellate di CO2. La regione di Fianarantsoa, dove è attivo il progetto, è insieme a quella Tomasina la responsabile del 55% della perdita di copertura tra il 2001 e il 2021.

“Spesso sono i contadini che bruciano intere colline pensando che in questo modo il suolo diventerà più fertile l’anno successivo: è un percorso lento ma necessario -riprende Razaka-. Anche per questo motivo accanto alla tematica ambientale investiamo molto sui progetti educativi”. La scuola primaria, aperta grazie all’aiuto di Koinonia, raddoppierà i suoi spazi in estate. Così come i corsi professionali dedicati alle donne del villaggio che possono accedere a un’istruzione di base e costruirsi un futuro migliore.

Lo sa bene Nicola Gandolfi, responsabile dell’organizzazione di volontariato Tsiry Parma attiva dal 2011 nella foresta di Vohidahy, che si trova a Nord del parco di Ranomafana. “Non si convincono le persone a non bruciare la foresta senza dare alternative -spiega-. Le attività a tutela dell’ambiente devono andare di pari passo con quelle sociali e di alfabetizzazione. Abbiamo raggiunto più di 11mila persone in dieci anni. Sono tante ma non abbastanza”. Quello che manca, infatti, è la collaborazione tra l’amministrazione forestale, le comunità locali e gli organismi “di appoggio” come Tsiry Parma. “Con un unico obiettivo: salvare il salvabile e realizzare interventi agroforestali di specie veramente utili, non eucalipti e pini deleteri per l’ambiente”. Intanto il malcontento, nel Paese, cresce. Perché la corruzione dilagante impatta sulla vita di tutti i cittadini. “Qui diciamo che lo zebù è più sicuro di una banca. I soldi spariscono, non si sa dove finiscano -ci racconta Thierry, giovane autista della capitale Antananarivo-. Ma protestare è impossibile, la polizia ti arresta prima ancora che metti piede in piazza”. Da inizio aprile 2023 le manifestazioni politiche si possono svolgere solo in luoghi chiusi in vista delle elezioni presidenziali di novembre: in gioco c’è la leadership di Andry Rajoelina, al potere dal 2009 a seguito di un colpo di Stato. “È sempre la stessa storia: Rajoelina aveva promesso grandi cambiamenti ma tutto è rimasto uguale -sospira Thierry-. Dalla politica non ci aspettiamo più nulla”. 

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