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I bonus e gli incentivi sono davvero strumenti espansivi dell’economia?
Gli operatori e le imprese che si sono organizzati in funzione di leggi sbagliate hanno ragione di lamentarsi e diritto di protestare per come è stata gestita la partita del “superbonus 110%”. Però non possono essere sempre gli stessi, ovvero gli estranei ai benefici dei bonus e “superbonus”, a pagare il conto. Il commento di Remo Valsecchi
Bonus e incentivi sono strumenti espansivi dell’economia? No, possono esserlo se limitati ad azioni che, comunque, rientrano nella funzione dello Stato e che, per loro natura, sarebbero a carico della fiscalità generale quando sono realizzati da privati, come la ricerca in settori strategici quali la sanità, l’istruzione, l’evoluzione tecnologica e l’ambiente. L’obiettivo con risorse pubbliche, prodotte da tutti e con sacrifici maggiori per coloro che hanno redditi inferiori, dovrebbe essere l’interesse generale e non i benefici individuali, come l’incremento di valore delle proprietà, anche se il fine è la riqualificazione energetica, la riduzione del rischio sismico e la transizione energetica verso le fonti rinnovabili.
Sono provvedimenti, inoltre, che producono, in modo innaturale, aumento della domanda facilitando le frodi, purtroppo un male mai affrontato e non risolto in un Paese il cui Prodotto interno lordo è prodotto per l’11,3% da attività illegali, e aumenti di prezzi ingiustificati stante il disinteresse del beneficiario a trattarlo o a mettere le proposte a confronto con altre che sarebbe comunque inutile per una domanda tanto elevata che consente alle imprese di trovare alternative più accondiscendenti. Le forzature delle regole naturali del mercato e della concorrenza, ossia dell’incontro e confronto della domanda e dell’offerta creano solo danni. Anche la creazione di nuovi posti di lavoro deve essere ben analizzata, trattandosi di provvedimenti con effetti limitati nel tempo che determinano occupazione temporanea, ossia precaria. Il nostro Paese ha necessità di una profonda e radicale riforma del mercato del lavoro che garantisca una occupazione stabile attraverso un rilancio del sistema delle imprese, quelle che hanno rappresentato la struttura portante dell’economia nel secolo scorso e nel Dopoguerra.
Si pone, inoltre, il problema del costo di queste agevolazioni e dell’effetto che producono sulla finanza pubblica sul bilancio dello Stato e sul debito pubblico. Le audizioni in commissione Finanze e Tesoro del Senato del febbraio di quest’anno, quelle del direttore generale delle Finanze, Giovanni Spalletta, e del direttore delle statistiche di finanza di Eurostat, Luca Ascoli, in particolare, sono chiare, precise e inequivocabili, anche se interpretate in modo distorto da chi vuole difendere l’indifendibile forse solo per contrapposizione strumentale politica e per la scontata ricerca del consenso.
Il direttore generale delle Finanze ha enunciato un concetto non politico ma tecnico: “Sotto il profilo dei costi e quindi della politica di bilancio, i trattamenti agevolativi di favore danno luogo a una mancata entrata e hanno, quindi, un costo per il bilancio pubblico”. Lo stesso concetto viene espresso dal direttore statistiche di Eurostat, quando spiega che il cosiddetto “superbonus” e la cessione del credito non è automaticamente un debito ma produce deficit in un solo anno se “pagabile” o in più anni se “non pagabile”. Un deficit è un nuovo debito. Non sono le agevolazioni o le modalità di erogazione a creare nuovo debito ma i loro effetti.
Il gettito fiscale prodotto dalle agevolazioni non garantisce la copertura dei relativi costi come qualcuno vorrebbe far credere. Le imposte dirette, quelle che comunemente ed erroneamente chiamiamo “tasse”, cioè quelle che vengono pagate con le dichiarazioni dei redditi, non sono sufficienti a finanziare le agevolazioni. L’introduzione della cessione del credito, un credito pari al costo, compreso l’Iva, per la quota concessa come agevolazione e, nel caso del “superbonus”, pari al 110%, ha sopperito alla creazione delle risorse necessarie ma ha creato una spesa fiscale e un costo sociale.
Con la cessione del credito, il cessionario lo potrà compensare con tutti i suoi debiti verso lo Stato che sono la stessa Iva, le imposte dirette ma anche le ritenute fiscali effettuate su stipendi, salari e pensioni e quelle effettuate sui compensi di lavoro autonomo, oltre ai contributi previdenziali, a carico del cessionario o trattenute ai propri dipendenti, destinate al pagamento di prestazioni future ai lavoratori, come le pensioni e le eventuali invalidità, da parte degli enti previdenziali, e ai premi assicurativi per le conseguenze di infortuni sul lavoro.
Non sarà prodotto alcun gettito per la finanza pubblica anche se i debiti compensati saranno contabilizzati tra le entrate ma avranno nelle spese una contropartita dello stesso importo. Il deficit di bilancio può essere evitato con un aumento delle entrate, cioè dell’imposizione fiscale, magari dell’Iva o delle accise che non contrastano con la flat-tax, o con la riduzione delle spese, cioè dei servizi, magari con ulteriori privatizzazioni o finanziarizzazioni, in tal caso non sarà un aumento del debito pubblico ma sarà un aumento del deficit sociale. Gli operatori e le imprese che si sono organizzati in funzione di leggi sbagliate hanno ragione di lamentarsi e diritto di protestare però non possono essere sempre quelli, cioè gli estranei ai benefici dei bonus e superbonus, a pagare il conto. Se il costo di questa agevolazione (Superbonus 110%, Bonus facciate e altri bonus edilizi) è di 110 miliardi di euro, come afferma il direttore generale delle Finanze (vedi tabella sopra), ogni cittadino dovrà farsi carico di circa 2.000 euro poiché la quota di imposte destinata a coprire il costo e rapportata alla capacità contributiva è minima rispetto al totale delle entrate sottratte alla loro specifica funzione e destinazione. Quando nel nostro Paese sarà avviata una reale riforma destinata a rimuovere le disuguaglianze sociale e le ingiustizie? Questo è il dilemma.
Remo Valsecchi, già commercialista, è autore del nostro dossier “Carissimo gas”
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