Diritti / Opinioni
Hebe de Bonafini vive nelle lotte delle sue innumerevoli compagne
Il 20 novembre a La Plata è morta a quasi 94 anni la storica attivista argentina delle Madri di Plaza de Mayo. Il modo più coerente per ricordare Hebe e le sue compagne non è il lutto ma il ritrovarne l’interpretazione nelle lotte, diverse, che oggi vedono le donne come protagoniste assolute. Dal Rojava all’Iran. L’analisi di Gianni Tognoni
Il lutto nazionale di tre giorni proclamato dal presidente dell’Argentina Alberto Fernández il 20 novembre scorso per onorare la memoria di Hebe de Bonafini -che proprio quel giorno aveva concluso la sua lunga vita a pochi giorni dal suo 94esimo compleanno- è forse l’indicatore più diretto dell’importanza molto concreta e ancor più profondamente simbolica di questa donna. Non solo nella storia dell’Argentina ma in quella globale dei diritti umani. La cronaca della vita di Hebe de Bonafini è nota ed è stata ripercorsa nelle sue tappe essenziali nei giorni immediatamente successivi al suo decesso e può essere recuperata facilmente (ad esempio qui e qui). Ai fini di questa riflessione i dati che contano sono molto pochi.
La fondazione, con altre 13 donne, madri di giovani donne e uomini scomparsi nel periodo più duro della dittatura argentina (tra il 1976 e il 1983), di un gruppo di denuncia che ogni giovedì marciava di fronte alla sede del governo argentino (in Plaza de Mayo) per reclamare la “riapparizione in vita” dei figli fu l’evento più dirompente e insopprimibile, a livello interno e internazionale, del silenzio connivente che la dittatura militare era riuscita a imporre, contro tutte le evidenze.
La presenza e il cammino di quelle Madri (“Sono i nostri figli che ci hanno generato” era il motto riassuntivo della loro non paura) erano le armi di una lotta che proponeva come unica violenza irrinunciabile quella della verità che si celava dietro la nuova parola inventata per non “render conto” di quanto succedeva: desaparecidos è divenuto da allora termine universale per un crimine che sfidava l’impotenza del diritto ufficiale nel qualificare vittime “non dimostrabili” se non per la loro “assenza” e la testimonianza “chiaramente di parte” di poche locas de Plaza de Mayo. Le “pazze” erano però molto lucide, resistenti, crescevano: sarebbero rimaste anche dopo la dittatura, per anni, fino a che la storia vera dei desaparecidos sarebbe stata riconosciuta e narrata, attraverso fasi alterne, anche nei tribunali argentini.
Erano passati tanti anni dopo che l’enormità del genocidio che si voleva negare (30mila desaparecidos è la cifra, simbolica più ancora che quantitativa con la sua apparente “precisione”) era già stata giudicata dal Tribunale permanente dei popoli nella sua sessione, a Ginevra, sulla base di dati che già all’inizio degli anni Ottanta potevano essere rintracciati. Ma il cammino intorno a Plaza de Mayo aveva bisogno di tanti difficili passi da parte di tutta la società argentina e del diritto internazionale, per fare della testimonianza-giustizia non istituzionale, disobbediente, radicale rappresentata dalle Madri, il fondamento di un nuovo diritto: a misura della permanente ripetizione della negazione della verità.
Alle Madri si aggiunsero le Nonne (Las Abuelas), con la stessa logica: ritrovare i nipoti, i neonati di madri desaparecidas morte in carcere e “affidati” in adozione a quei militari che avevano gestito la scomparsa, la tortura, la morte dei loro genitori. La testimonianza di Madri e Nonne sarebbe stata rafforzata lungo gli anni da esperti di medicina legale, di genetica, di tecniche strumentali raffinatissime per ricostruire (da reperti sepolti nei luoghi più improbabili, da campioni ottenuti con il consenso di familiari, e/o di “vittime” di adozioni) i percorsi di tortura-eliminazione delle innumerevoli “vittime”. Tanto che ancora oggi gli esperti argentini sono un gruppo di riferimento internazionale, per i tanti scenari di desaparicion che non cessano di essere di attualità: dalla ex-Jugoslavia, al Sahara Occidentale, al Messico.
Non è stata facile né senza conflitti (spesso durissimi, a livello personale e politico) la vita di Hebe de Bonafini: per i suoi ruoli concreti e per il suo essere rappresentante di un immaginario sempre utopico e perciò sempre conflittuale -il diritto inviolabile e universale alla vita non può essere alla mercé di poteri che si autoproclamano legittimi in nome di una loro “legalità” formale-, la storia di una donna come lei deve rimanere come una domanda tutta aperta, e permanente, per coloro che ritengono imprescindibile l’immaginario che si è appena ricordato. Sapendo, come è stato chiaro per Hebe e le sue compagne, che le risposte procedono per tappe parziali e difficilmente prevedibili. Molto raramente possono essere perfette nella pianificazione e nelle scadenze, nel modo con cui si formulano e si esprimono. Per sopravvivere e avere un impatto hanno bisogno di casse di risonanza che ne riconoscano la capacità di anticipare il futuro: anche se questo può avere, per tanti anni, solo la forma banale di un “fazzoletto bianco” sulla testa come unica carta di identità.
In Argentina le donne che hanno portato avanti le lotte per i loro diritti civili, come anche quello per l’aborto, il movimento “Ni una menos“, sono, nella loro diversità, le continuatrici-interpreti dell’immaginario delle Madri e delle Nonne di Plaza de Mayo. E mi sembra -sapendo di dire qualcosa di puro buon senso, ma che potrebbe invece apparire non pertinente- che il modo più coerente per ricordare Hebe e le sue compagne non sia quello del “lutto simbolico”, ma vederne l’interpretazione più legittima e urgente nelle lotte, infinitamente diverse, che oggi vedono le donne come protagoniste assolute. Con due esempi esemplari, certo non esaustivi, obbligatoriamente da seguire come priorità nostre, per la credibilità del nostro vivere: l’ormai lunghissima rivolta-presa di parola delle donne iraniane e la resistenza e creatività delle donne oggi bombardate dai turchi nel Rojava. Con una precisazione importante. Il loro eroismo è riconosciuto anche sui media, pur parzialmente.
Ciò che più a fondo sconvolge, e diventa centrale, è l’assenza di un riconoscimento istituzionale politico da parte della comunità internazionale degli Stati: che rispondono solo ai propri interessi. Ci ritroviamo come d’incanto nello scenario della dittatura militare Argentina: al tempo dell’inizio del camminare delle madri per Plaza de Mayo. La domanda allora centrale e aperta, per oggi e domani, è quella che tocca la “civiltà” di società che si dicono democratiche ma che si limitano a “osservare” quello che succede. Senza fretta. Alle vittime (quante?) si affida il vecchio ruolo di disaparecidos: soggetti non riconoscibili da un diritto che è sempre in ritardo e non-competente in nome della dittatura degli interessi e degli equilibri.
Con un augurio che sicuramente è più vicino a una memoria coerente con quella delle Madres e delle Abuelas. Quello che le 100mila donne che sabato 26 novembre hanno riempito le piazze a nome anche delle sorelle-compagne di Iran e Rojava e dei tanti scenari di violenza sulle donne, hanno formulato in modo chiarissimo: non si può pensare a nessun futuro di dignità se non si riconoscono e combattono, con tutti i mezzi nonviolenti e disobbedienti che saranno necessari, le dittature culturali, economiche, di genere che riproducono il potere di discriminare, nel quotidiano del vivere, e negli scenari internazionali, tra chi ha e chi non ha il diritto ad una vita nella dignità. I generali della dittatura contro cui si erano rivoltate, con la unica violenza della loro dignità, Hebe e le sue innumerevoli compagne, argentine e latinoamericane di quel tempo lontano, cambiano nome e stile, ma sono sempre molto vivi, con o senza divise.
Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
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