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Gli ultimi tre bambini farfalla di Gaza. Dall’Italia una gara internazionale per salvarli
Sono affetti da una malattia rara, l’epidermolisi bollosa, che rende la loro pelle fragile come ali di farfalla. Dei 25 conosciuti dall’infermiera italiana che da anni li segue, dal 7 ottobre, ne sono rimasti solo tre. Ora si trovano a Rafah, nel Sud della Striscia: “Ci serve aiuto per farli uscire -dice una delle associazioni coinvolte-, a Modena è tutto pronto per curarli”
A Gaza ci sono tre bambini così delicati che li chiamano bambini farfalla. Da mesi, grazie a tre Ong e a una manciata di persone tenaci, è tutto pronto per farli “volare” in Italia, ma la situazione assurda che regola l’uscita dalla Striscia rischia di tarpargli non solo le ali, ma la vita. Specie ora che su Rafah -dove sono stati portati dal Nord tra mille difficoltà- incombe lo spettro dell’offensiva israeliana.
L’epidermolisi bollosa è una malattia genetica rara, in cui la cute e i tessuti di rivestimento delle mucose vanno incontro, spontaneamente o in seguito a traumi anche minimi, a scollamento e formazione di bolle. Si va da forme lievi, che consentono una vita quasi normale, a quelle gravissime, che possono essere letali entro i primi mesi di vita. Viene chiamata “sindrome dei bambini farfalla”, perché le lesioni rendono la cute così delicata che ricorda le ali di una farfalla.
I bambini farfalla di Gaza e l’Italia hanno uno storico legame. La prima a mobilitarsi per loro, ormai 13 anni fa, fu, a titolo personale, la cooperante Daniela Riva. Anche uno dei primissimi progetti della Fondazione Vik Utopia, dedicata a Vittorio Arrigoni, l’attivista per i diritti umani che alla Striscia di Gaza ha letteralmente dato la vita, fu per loro. Negli ultimi anni il punto di riferimento in Italia è stata Gianna Pasini, un’infermiera bresciana in pensione, che ha raccolto e raccontato anche in un libro –“Storia di una bambina farfalla di Gaza”, illustrato dal disegnatore Fogliazza (Edizioni Q)- le loro vicende. Le vendite sono ancora oggi devolute a progetti dedicati.
“L’ultima lista dei bambini farfalla che abbiamo risale alla fine del 2020 -racconta Pasini- allora erano 25. Dal 7 ottobre abbiamo perso le tracce di tutti, tranne dei tre che si sta cercando di portare in Italia”.
A occuparsene, nel tempo, sono state associazioni come Pcrf Italia e Pro Terra Sancta, ma la guerra ha reso ancora più complicata una situazione già delicatissima. Le lesioni, infatti, che sono molto dolorose e simili a ustioni, hanno bisogno di essere medicate e curate con una certa frequenza. Il che, già normalmente, a Gaza non è semplice, ma ora che l’igiene non è garantita, così come la semplice possibilità di reperire garze e medicinali, “le condizioni dei bambini sono peggiorate a vista d’occhio”, aggiunge Pasini. È lei, tramite social network, che i padri dei tre minori hanno contattato per chiedere aiuto e da lì è partita una gigantesca cordata di solidarietà, soprattutto al femminile. Dalle volontarie del Gaza Kinder Relief, che si occupa di aiutare sul campo bambini malati e feriti, le palestinesi Maya e Nour, alle italiane Cecilia Parodi e Stefania che hanno raccolto tutti i dati e si sono rivolte al Palestine children’s relief fund (Pcrf) Italia, in particolare a Martina Luisi, la coordinatrice nazionale, e all’associazione Le ali di Camilla di Modena.
Ma a essere coinvolti sono stati anche la Farnesina e numerosi soggetti internazionali e nazionali. Per mesi il problema è stato che i bambini si trovavano nel Nord della Striscia, nell’area più pericolosa e irraggiungibile, e sembrava impossibile riuscire a spostarli. Problematica anche la questione degli accompagnatori: Faiq, il cui padre si è indebitato per procurargli le medicine, sembra ricoperto di uno strato di pellicola e si può spostare solo con la nonna, che è anziana. Mahmoud, sette anni e i piedi deformati dalle lesioni, può essere accompagnato dalla sorella, tra mille difficoltà, perché la madre non può lasciare la Striscia, dovendosi prendere cura degli altri figli.
Dopo mesi di stallo e l’aggravarsi dei bambini, alla fine è intervenuta l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ora i piccoli malati sono a Rafah, con il rischio e la paura che l’operazione israeliana tanto annunciata si scateni su di loro, come sugli oltre 1,3 milioni di gazawi lì rifugiati, dopo essere stati più volte sfollati. Elham, infine, sei anni, tagli e sangue vivo, si trovava nel centro della Striscia e anche suo padre ha speso tutto quello che aveva.
“Manca solo l’ultimo miglio -dice Stefania Bettinelli, presidente de Le ali di Camilla-. Abbiamo bisogno che qualcuno li faccia uscire e arrivare in Egitto e da lì è tutto pronto per accoglierli a Modena, al Policlinico, che in questo ambito è un centro d’eccellenza e che ha dato la propria disponibilità, come la Regione e altre associazioni locali”.
Anche padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, ha lanciato un appello per loro: “A Gaza manca tutto e soprattutto la possibilità di ricevere aiuto di ogni genere. Sento la disponibilità di chi vorrebbe dare sollievo ed è impedito. Tanti uomini e tante donne di buona volontà vorrebbero aiutare in ambito sanitario, ma non vengono concessi permessi a bambini bisognosi di cure immediate e necessarie. Mi è stata segnalata la possibilità di accogliere a Modena tre bambini affetti da una malattia rara, la cosiddetta sindrome dei bambini farfalla, che rende la loro pelle tanto fragile da infettarsi e riempirsi di piaghe al minimo sfregamento, e può essere alleviata solo con la continua applicazione di bende cremose. Le loro sofferenze stanno aumentando con l’arrivo del caldo e la mancanza di cure specifiche. Questi bambini sono già a Rafah, ma non è facile farli uscire da Gaza per raggiungere l’Italia. Sto incontrando molte difficoltà, ma prego e confido nell’aiuto di Dio e di tanti uomini e donne artefici di pace”.
La Striscia di Gaza, secondo l’Unicef, già nel dicembre scorso era il posto più pericoloso al mondo per i bambini. “Sono oltre 14.500 i minori uccisi a Gaza -ha detto Silvia Gison di Save the children, nella Sala stampa della Camera dei deputati il 17 aprile scorso, alla presentazione del libro di Cecilia Gentile ‘Bambini all’inferno’-. È stato calcolato che se mettessimo in fila tutti i loro nomi, ci vorrebbero 18 ore consecutive soltanto per leggerli. Ma oltre a quelli uccisi, ci sono migliaia di minori feriti, amputati spesso senza anestesia, e praticamente tutti sono traumatizzati”.
Nella Striscia è stato addirittura coniato un nuovo termine per indicare i bambini che sono rimasti soli: wounded child no surviving family (Wcnsf), bambino ferito senza familiari sopravvissuti. Ferite non solo fisiche, che non si rimargineranno in fretta e in alcuni casi forse mai più, o sarà proprio da lì che nascerà nuovo odio. Anche per questo “è necessario che l’accesso umanitario venga concesso in maniera continuativa -ha detto Gison- perché queste sofferenze dureranno a lungo negli adulti, figuriamoci nei bambini. A rischio c’è la cosiddetta resilienza palestinese, perché questa volta sono stati distrutti tutti i mezzi che facevano sì che tale resilienza permanesse”.
A Gaza sono state abbattute oltre il 60% delle abitazioni, ma anche ospedali, moschee, università e scuole, ovvero il futuro e la possibilità di ricominciare a crescere in maniera normale. E se la vita per i bambini della Striscia è già un inferno, figuriamoci per quelli con patologie croniche, per i piccoli (e grandi) con disabilità, per tutti i fragili e per quelli con ali di farfalla.
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