Diritti / Approfondimento
Gli stereotipi istituzionali che escludono i richiedenti asilo vulnerabili
Uno studio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia evidenzia come le figure istituzionali italiane diano ancora una lettura “standardizzata” dei vissuti delle persone nelle procedure per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Manca un’analisi complessiva e integrata dei diversi fattori in gioco
Un approccio “stereotipato e standardizzato” che non garantisce un’adeguata protezione ai richiedenti asilo vulnerabili. È la conclusione a cui arriva uno studio condotto tra febbraio e giugno 2020 da Sabrina Marchetti e Letizia Palumbo dell’università Ca’ Foscari di Venezia: tra le figure istituzionali italiane domina ancora una nozione di vulnerabilità “genderizzata, sessualizzata e culturalizzata” che si basa esclusivamente sull’appartenenza o meno a un determinato gruppo di persone, senza considerare il contesto di riferimento. “Si tiene conto solamente di alcuni frammenti dei vissuti delle persone, senza effettuare un’analisi complessiva e integrata dei diversi fattori in gioco e questo porta a escludere a priori alcune persone che non appartengono a specifiche ‘categorie’” spiegano le autrici.
La ricerca è stata condotta all’interno del progetto di ricerca dell’Unione europea “Horizon” e ha visto sia un’analisi della normativa vigente sia di come questa viene tradotta nella pratica nella procedura d’asilo e in quella di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari: il lavoro sul campo ha coinvolto più di 40 attori e attrici istituzionali che operano nell’ambito dell’immigrazione. Anche se nell’ordinamento italiano la “vulnerabilità” non viene definita in sé ma stabilita attraverso una lista di gruppi considerati come bisognosi di particolare assistenza, le linee guida e i documenti politici prodotti da organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) hanno fatto sì che ci fosse maggior attenzione al complesso di fattori personali e di contesto che concorrono a produrre situazioni di vulnerabilità. Ma questa previsione normativa non viene tradotta nei procedimenti amministrativi.
“Secondo molti avvocati e personale di Ong intervistati, la credibilità delle storie e delle caratteristiche personali che contribuiscono alle situazioni di vulnerabilità dei migranti viene spesso valutata dalle autorità competenti attraverso un approccio che considera solo alcuni frammenti dei vissuti delle persone, senza effettuare un’analisi complessiva e integrata dei diversi fattori in gioco” si legge nel report. Questo porta ad escludere da forme di protezione chi non rientra in una specifica categoria oltre che a “trascurare aspetti significativi della situazione di vulnerabilità della persona interessata”.
D’altronde l’intervento dei cosiddetti “Decreti sicurezza” del 2018, con l’abolizione della protezione umanitaria e la previsione di un permesso di soggiorno per “casi speciali” confermava questa lettura: venivano individuate categorie specifiche, come le vittime di tratta di esseri umani, persone in fuga da un disastro naturale, e così via tipicizzando i “vulnerabili”. “L’umanitario è stato abrogato proprio perché copriva un ampio spettro di situazioni, tenendo conto dell’interazione tra diversi fattori che contribuiscono a creare situazioni di violazione dei diritti umani”. Anche la riforma promossa nel dicembre 2020 dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese di fatto reintroduce solo in parte una protezione più generica: le riforme legislative e politiche restrittive in materia di migrazione e asilo rivestono un ruolo di primo piano in questo quadro. La vulnerabilità viene amplificata dal contesto istituzionale e sociale del Paese di arrivo e, ad esempio, da un sistema di accoglienza inadeguato; così come dalla procedura di asilo che comporta “richieste invasive e umilianti in sede amministrativa e giudiziale”. Ma non solo. L’esternalizzazione e la militarizzazione dei confini europei obbligano migranti e richiedenti asilo a seguire rotte pericolose all’interno di percorsi migratori segnati da abusi e violenze e poi fa sì che le persone restino in una condizione di “precarietà e incertezza favorendo la loro esposizione a dinamiche di sfruttamento”.
Il report sottolinea l’importanza della dimensione di genere. Secondo le autrici tale categoria non sembra essere utilizzata con l’obiettivo di avere “una visione essenziale e deterministica della vulnerabilità delle donne”. Al contrario l’attenzione è sulle discriminazioni e sulle diseguaglianze strutturali. Su questo fronte i giudici dei tribunali che intervengono sulle procedure d’asilo stanno adottando un approccio in linea con una prospettiva intersezionale. “Ad esempio, in alcune decisioni dei tribunali civili, il timore di persecuzione per motivi legati alle mutilazioni genitali femminili è visto in relazione al rischio di altri rischi basate sul genere, tra cui il traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o il matrimonio forzato. -spiegano le autrici-. Questo approccio rivela una comprensione delle conseguenze strutturali delle interazioni tra forme multiple di discriminazione e subordinazione”. Si dà valore quindi all’interazione tra situazioni personali, di genere, sociali, politiche che possono favorire situazioni di vulnerabilità. Questa concezione aiuta anche a riconoscere gli elementi di agency delle persone stesse, i modi in cui le persone agiscono (o cercano di farlo), negoziano e fanno la loro scelta in un quadro di relazioni economiche, sociali, affettive e di potere: “La vulnerabilità non esclude o si oppone all’azione dell’individuo” si legge nello studio.
Molti dei partecipanti alla ricerca hanno evidenziato che ci sono questioni importanti che sono ancora “trascurate o raramente affrontate” dalle autorità istituzionali, come, ad esempio, le malattie psicologiche o mentali. “Sempre più migranti in situazioni di vulnerabilità sono stati esclusi -come quelli provenienti da ‘Paesi d’origine sicuri’- o sono stati costretti a una procedura accelerata, che non conferisce lo stesso livello di tempo e risorse per preparare e presentare il loro caso”. Anche perché diversi partecipanti alla ricerca hanno criticato queste procedure sottolineando che “gli individui in situazioni di vulnerabilità hanno bisogno di tempo per esprimere i loro bisogni e le loro condizioni; rivelare e parlare di aspetti della vulnerabilità è anche una questione di fiducia”. La pandemia ha inciso fortemente sull’amplificazione delle disuguaglianze strutturali che caratterizzano l’Italia con un impatto sproporzionato sulle persone più colpite dall’esclusione sociale e dalla discriminazione. Motivo in più per avere uno sguardo più attento sulla vulnerabilità.
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