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Gli interessi fossili di SACE, cassaforte delle multinazionali italiane, e quelli del Pianeta

© Delfino Barboza - Unsplash

L’agenzia di credito all’esportazione “agisce al di fuori dei radar dell’attenzione pubblica, sostenendo progetti che devastano il Pianeta e impattano gravemente sulle comunità”. Dal Mozambico all’Artico. La denuncia di Re:Common che alla società controllata al 100% da Cassa depositi e prestiti ha dedicato il report “Stato di garanzia”

SACE, la cassaforte delle multinazionali italiane, “agisce al di fuori dei radar dell’attenzione pubblica, sostenendo progetti che devastano il Pianeta e impattano gravemente sulle comunità”. Dal Mozambico all’Artico, passando per Uganda e Tanzania. È la denuncia dell’associazione Re:Common che all’agenzia di credito all’esportazione controllata al 100% da Cassa depositi e prestiti ha dedicato il report “Stato di garanzia”, pubblicato a fine marzo 2021.

Tredici pagine per mettere a fuoco il ruolo della società nella miliardaria “agenda estrattivista italiana” e formulare un chiaro appello al governo di Mario Draghi (che anni fa ne supervisionò personalmente la privatizzazione): occorre ripensare il ruolo della finanza pubblica a cui sono state offerte le chiavi della “ripresa” del Paese. Altrimenti la transizione ecologica resterà un cavalierino.

Nel dibattito pubblico SACE (acronimo di Sezione speciale per l’assicurazione del credito all’esportazione) passa quasi inosservata. Formalmente è una società di diritto privato e la sua funzione sembra burocratica: assicura i colossi nazionali e i loro finanziatori contro i rischi commerciali e politici, in particolare quei progetti in Paesi considerati “a rischio”. Eppure, come ricorda Re:Common, “è uno strumento di politica economica molto rilevante nelle mani del governo”. Che va studiato.

Alcuni dati aiutano a capirne il perché. Tra 2018 e 2020, SACE ha impiegato risorse pari a qualcosa come 77 miliardi di euro, rilasciando garanzie e coperture assicurative. Lo scorso anno ha effettuato operazioni per 46 miliardi di euro. Un record. “Un flusso enorme di denaro -sottolinea Re:Common- una parte significativa del quale ricade sul pubblico. In questi ultimi anni, la quota degli impegni finanziari di SACE ceduti allo Stato è salita notevolmente, fino a superare i 20 miliardi a fine 2019. In pratica, ciò significa che qualora le cose si mettessero male, per esempio nel caso in cui un progetto fallisse, l’azienda o banca italiana non fosse pagata, o una società dovesse finire in bancarotta, a rimetterci saremmo tutti noi”.

Tratto da “Stato di garanzia”, Re:Common, 2021

Dalla relazione annuale 2019 si capisce dove sia impegnata oltre la metà (61%) del portafoglio garanzie di SACE: in due settori, crocieristico (41%) e petrolifero (20%), dominati rispettivamente da Fincantieri ed Eni. Seguono il chimico-petrolchimico, infrastrutture e costruzioni, elettrico. “Perché queste risorse non sono state spese diversamente, supportando settori che ne avevano realmente bisogno e che rispondono a bisogni della collettività?”, si domandano gli autori del report, lamentando la “totale mancanza di trasparenza che caratterizza le operazioni di SACE”.

Il vuoto segnalato da Re:Common ha una rilevanza doppia considerato che dall’emergenza Covid-19 in poi SACE ha visto crescere “esponenzialmente” il proprio potere e garantiti propri impegni con risorse pubbliche “senza precedenti”. Nel 2020, infatti, il volume delle sue operazioni ha quadruplicato quello del 2019. FCA, Fincantieri e Maire Tecnimont (società del settore petrolchimico) sono stati tra i principali beneficiari.

Tratto da “Stato di garanzia”, Re:Common, 2021

SACE, è la denuncia di Re:Common, è un problema per il Pianeta. “Dalla firma dell’Accordo di Parigi a oggi -ricostruisce l’associazione- l’agenzia ha continuato a sostenere il settore dei combustibili fossili a un ritmo impressionante, facilitando così l’espansione di Eni e la controllata Saipem in paesi ad alto rischio”. Anche in questo caso parlano i dati: dal 2016 al 2020, l’agenzia “di fatto” del ministero dell’Economia ha supportato il comparto Oil&Gas per 8,6 miliardi di euro, il 14% del totale delle risorse mobilitate.
L’esposizione complessiva dell’agenzia verso il settore è così “cresciuta in modo significativo”, toccando i 9,2 miliardi di euro, oltre un quinto del portafoglio privato.

Dove sta l’interesse pubblico e dove quello privato? Re:Common prova a rispondere: “Il nodo sempre più stretto con cui SACE si è legata al comparto fossile italiano in questi anni ha prodotto un pericoloso conflitto di interessi, vincolando la sostenibilità finanziaria della prima alle performance di Eni e di altre aziende energetiche. Essendo però SACE a sua volta controllata dal Tesoro, le sue partecipazioni in progetti fossili rischiano di incentivare politiche che possano favorire le aziende del settore, con Eni in cima alla lista. E questo conflitto di interessi è reso ancor più esplicito dal fatto che una larga parte delle garanzie offerte da SACE è a sua volta contro-garantita dallo Stato”.

Tratto da “Stato di garanzia”, Re:Common, 2021

Al 2020, infatti, le “contro-garanzie pubbliche ricevute da SACE da parte del ministero dell’Economia erano di circa 23 miliardi di euro, oltre un terzo dell’esposizione complessiva dell’agenzia. Una quota destinata ad aumentare sempre di più a seguito delle misure approntate dal governo nei mesi scorsi, che mirano a svincolare le risorse dell’agenzia trasferendo i suoi impegni (e quindi i rischi) sul pubblico”.

E qui si arriva al capitolo che Re:Common chiama esplicitamente “devastazione garantita”. Si parte dall’Artico e dall’impianto di liquefazione di gas attualmente in costruzione nella regione artica siberiana chiamato “Arctic Lng-2”. Nell’ottobre 2020 Re:Common aveva rivelato l’interesse di SACE a partecipare al progetto estrattivo in sostegno probabilmente di Saipem e in compagnia tra gli altri di Intesa Sanpaolo. L’istruttoria sarebbe ancora in corso, continuano gli autori del report, a dimostrazione di “come quest’agenzia non si faccia scrupoli quando c’è da sostenere l’agenda estrattivista del Sistema-Paese”.

Tra i contesti più delicati c’è il Mozambico e la sua “maledizione delle risorse”, come abbiamo raccontato sul numero di dicembre di Altreconomia. In particolare al largo delle coste di Cabo Delgado.

“Gli immensi giacimenti di gas scoperti a partire dal 2010 hanno trasformato il Paese in una delle più violente frontiere estrattiviste nel continente africano -ricorda Re:Common-. La corsa al gas è guidata da multinazionali occidentali come Eni, Total e l’americana ExxonMobil, e ha attratto enormi investimenti da parte di banche private e agenzie di credito all’esportazione”. SACE non è rimasta alla finestra.

Nel 2017 Eni ne ha infatti ottenuto una prima garanzia per 700 milioni di dollari per il progetto di gas Coral South. A metà 2020, l’agenzia ne ha erogata un’altra per il progetto Mozambique LNG (Saipem, 900 milioni di dollari). Oggi si vorrebbe procedere a una terza tranche a favore delle attività della multinazionale fossile e altre imprese attive nel progetto Rovuma LNG.

“L’espansione dell’industria del gas a Capo Delgado è coincisa con un’escalation incontrollata della violenza, che lo ha trasformato in uno dei luoghi più instabili e pericolosi al mondo”, ricorda amaramente Re:Common. Dall’ottobre 2017, una serie di attacchi di gruppi legati a Isis e Al-Shabab ha causato almeno 2.193 vittime e oltre 350mila sfollati.

Chiude la rassegna il mega-oleodotto East African Crude Oil Pipeline (EACOP), in costruzione tra il Lago Alberta -in Uganda, in prossimità del confine con la Repubblica Democratica del Congo- e le coste della Tanzania -sull’Oceano indiano-. Sarà il più lungo oleodotto riscaldato al mondo (1.443 chilometri), in capo alla francese Total, alla cinese CNOOC Limited, all’Uganda National Oil Company e alla Tanzania Petroleum Development Corporation. Gli impatti ambientali e sociali dell’opera sono “gravissimi” (si aggiungerebbe anche una rete di brevi oleodotti, un aeroporto e una raffineria), come ricorda Re:Common, ma SACE non avrebbe smentito l’interesse a rilasciare comunque garanzie in favore delle società italiane coinvolte (da Saipem a Nuovo Pignone).

Un supporto all’era fossile che è “semplicemente intollerabile”, come ricordano Antonio Tricarico e Alessandro Runci di Re:Common. “Solamente rivendicando il nostro diritto a una finanza pubblica che metta al centro i bisogni della collettività ed estrometta gli interessi delle grandi corporation responsabili della crisi che viviamo potremo riuscire a riprendere il controllo delle risorse necessarie a trasformare questa società”.

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