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Crisi climatica / Approfondimento

Gli effetti dei cambiamenti climatici sul traffico marittimo internazionale

© Ian Taylor - Unsplash

Una parte consistente del commercio via nave globale passa da tre snodi: il Canale di Suez, quello di Panama e gli Stretti della Turchia. Punti cruciali vulnerabili agli effetti della crisi climatica, come tempeste e siccità, e che in futuro, come già oggi, potrebbero veder compromessa la propria navigabilità. Il conto miliardario dei danni pesa sui Paesi a basso e medio reddito. Intanto la decarbonizzazone del settore fatica

L’aumento degli eventi metereologici estremi causato dal cambiamento climatico ridurrà la navigabilità di importanti snodi del traffico marittimo, come il Canale di Suez, quello di Panama e gli Stretti turchi, danneggiando l’economia globale e in particolare il commercio di generi alimentari. Per una perdita complessiva che potrebbe raggiungere i 34 miliardi di dollari nel 2030, un peso che sarà a carico soprattutto di Nord Africa, Medio Oriente e Africa subsahariana.

Sono i risultati di una ricerca sull’evoluzione del traffico marittimo pubblicata ad aprile 2024 sul Journal of shipping and trade. “Ci siamo concentrati su tre importanti ‘strozzature’: il Canale di Panama, il Canale di Suez e gli Stretti della Turchia (Dardanelli e Bosforo) -spiega ad Altreconomia Ramon Key, ricercatore per il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc) e tra gli autori della ricerca-. Questi snodi non sono molto importanti per il commercio marittimo ma sono anche estremamente vulnerabili a eventi climatici estremi e a blocchi di tipo fisico. Basti pensare a quando è accaduto nel marzo 2021, quando una nave portacontainer si è incagliata bloccando il canale di Suez per sei giorni”.

Il traffico marittimo riveste un ruolo molto importante nel commercio globale, si stima infatti che in questo modo transiti l’80% del volume e il 70% del valore delle merci. Una buona parte di queste rotte attraversa almeno uno di punti strozzatura già citati, che risultano inoltre particolarmente importanti per i prodotti agricoli.

È stato calcolato che il 55% degli scambi di mais, grano, riso e soia passi attraverso almeno uno di questi punti critici. In particolare, se si considerano le quattro derrate alimentari più importanti (e di conseguenza le più monitorate) -cioè riso, frumento, altri cereali e semi oleosi-, i dati risalenti al 2018 sottolineano ulteriormente l’importanza di questi snodi nel commercio marittimo. Dagli Stretti turchi transita quasi un terzo (30,2%) di tutto il frumento mentre Panama risulta uno snodo importante per il commercio di cereali (13%) e di semi oleosi (13,2%) e da Suez passa il 18% delle derrate di riso e grano. In generale per questi snodi, nel 2018, sono transitati beni agricoli per un totale di 89 miliardi di dollari.

Tutte queste tre strozzature sono, come già accennato, sensibili agli eventi climatici estremi e agli effetti dei cambiamenti climatici. A iniziare dal Canale di Panama, soggetto al fenomeno atmosferico denominato El Niño che, in anni particolarmente intensi, causa l’abbassamento dei livelli d’acqua nei laghi Gatun e Miraflores, portando di conseguenza all’introduzione di restrizioni di profondità per le navi che transitano nel Canale. Un fenomeno già osservato nel 2016 e che ha interessato un quinto delle navi portando a una riduzione del traffico del 5,6%. Nello scenario ipotizzato dai ricercatori la diminuzione alla navigabilità di Panama potrebbe comportare un danno di 28 miliardi di dollari.

Il Canale di Suez è invece soggetto a forti venti e tempeste di sabbia in particolare nel Golfo di Suez, nella parte Sud. Questi fenomeni, oltra a incagliare navi come accaduto nel 2021, porterebbero danni alle infrastrutture di Port Taofik, dove il Canale sfocia nel Mar Rosso. Sebbene rari, i forti venti hanno già ritardato il traffico marittimo o chiuso il Canale di Suez in almeno due occasioni, nel dicembre 2010 e nel febbraio 2015, nonostante il legame tra cambiamento climatico e questi due eventi sia di difficile attribuzione. La ricerca ipotizza che in futuro gli eventi climatici accentuati dal riscaldamento globale potrebbero rendere il Canale non navigabile per sei settimane, con un danno complessivo di 3,1 miliardi di dollari per l’economia globale.

Infine, gli Stretti di Bosforo e Dardanelli sono minacciati di fenomeni climatici estremi in grado di provocare collisioni tra navi e congestioni nel traffico. L’incidente più grave è avvenuto nel 1994 con lo scontro tra due petroliere che ha causato la chiusura del tratto di mare per una settimana. Il Servizio meteorologico di Stato turco afferma che il numero di eventi estremi è in aumento. Nel 2023 sono stati registrati 1.475 fenomeni di questo tipo in tutta la Turchia, rispetto agli 840 del 2018 e ai 461 del 2013. “Sebbene questi eventi siano di tutti i tipi e si riferiscano a un’area geografica nazionale, sono una chiara indicazione di una tendenza che interessa gli stretti turchi -prosegue Key-. La ricerca ipotizza che tali eventi possano innescare altri incidenti come quello del 1994, oppure richiedere restrizioni di passaggio per sei settimane con conseguenze sull’economia analoghe a quanto previsto per Suez”.

L’adattamento ai cambiamenti climatici rivestirà quindi un ruolo sempre più importante nel commercio globale. “Il traffico marittimo di per sé può essere considerato anche una forma di adattamento climatico -continua Key-, ed è per questo che è necessario monitorare e preservare questi punti. Al momento i nostri sforzi sono indirizzati nel preservare queste infrastrutture e per farlo sono necessari grandi investimenti e una vasta cooperazione internazionale”. Questo secondo il ricercatore vale soprattutto per Panama, un Paese piccolo con limitate risorse finanziarie.

Il traffico marittimo non è solo influenzato dal cambiamento climatico ma è anche una delle sue principali cause. Il settore, infatti, è responsabile del 3% delle emissioni climalteranti a livello globale, pari a un miliardo di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, oltre a produrre particolato e altri inquinanti dannosi per la salute.

“Il legame tra trasporto navale e combustibili fossili è in realtà ancora più profondo -racconta ad Altreconomia Carlo Tritto, policy officer per l’ufficio italiano della Federazione europea dei trasporti e dell’ambiente (T&E)-, infatti buona parte del traffico marittimo odierno è legato al trasporto di combustibili fossili. Il vantaggio è che la decarbonizzazione porterà automaticamente a una riduzione delle emissioni del settore, grazie a un calo delle richieste di carbone, petrolio e gas fossile”.

La decarbonizzazione del trasporto navale, in particolare per le rotte a lunga percorrenza dove non esiste (o non è conveniente) un’alternativa elettrica, passa principalmente dai carburanti sintetici (detti anche e-fuel). Si tratta di combustibili artificiali prodotti unendo idrogeno ad anidride carbonica estratta dall’atmosfera. Se si utilizza l’idrogeno verde, cioè prodotto tramite elettrolisi con fonti rinnovabili, gli e-fuel hanno emissioni nette nulle in quanto l’anidride carbonica prodotta dalla loro combustione è stata in precedenza estratta dall’atmosfera. Ma le trappole dell’industria fossile non mancano. “Per una corretta decarbonizzazione del settore bisogna evitare false soluzioni come i biocarburanti e il gas ‘naturale’ liquefatto (Gnl) -continua Tritto-. In particolare, quest’ultimo è un potente gas serra che, rilasciato in atmosfera ha un effetto 80 volte superiore all’anidride carbonica su un arco temporale di 20 anni. Una nostra inchiesta ha svelato come le navi alimentate con Gnl abbiano grosse perdite di questo gas, e di conseguenza delle emissioni elevate”.

Al momento però manca uno sforzo a livello globale per decarbonizzare il traffico marittimo. Secondo Tritto, ad esempio, l’Organizzazione marittima internazionale non è riuscita finora ad adottare misure di riduzione che portino il settore marittimo su un percorso compatibile con gli obiettivi di decarbonizzazone stabiliti dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015.

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