Diritti / Reportage
La lunga attesa nei campi dei profughi siriani in Giordania
Negli ultimi nove anni il Paese ha accolto 1,3 milioni di persone provenienti dalla Siria. Solo il 15% si trova nei campi gestiti dalle Nazioni Unite: gli altri vivono in insediamenti informali, nelle more di una risposta alla loro domanda di asilo
“Una volta dormivamo nelle tende, poi abbiamo costruito le case in muratura. Non sappiamo quanto resteremo qui: potrebbe essere qualche anno, oppure una vita intera. E poi abbiamo piantato gli ulivi: ci riparano dal vento e dalla sabbia, ma soprattutto ci ricordano la nostra terra”. Nel deserto nel Nord della Giordania, a 25 chilometri dal confine con la Siria, Hassan sorseggia un tè bollente seduto sul tappeto di casa. Indossa un thawb blu lungo fino ai piedi e in testa porta la tipica kefiah rossa. È uno dei tanti profughi siriani arrivati qui in fuga dalla guerra, che oggi vivono lontani dalla loro casa, senza una prospettiva, di fronte a una crisi ormai uscita dall’attenzione della comunità internazionale.
La Giordania negli anni ha dovuto gestire grandi flussi migratori in ingresso: dal 1948, quando centinaia di migliaia di profughi palestinesi vi si rifugiarono durante la prima guerra arabo-israeliana, passando per le due guerre del Golfo, con le ondate di profughi iracheni, fino alla guerra civile in Siria scoppiata nel 2011. Negli ultimi nove anni la Giordania ha accolto 1,3 milioni di siriani, più della somma di tutti i Paesi europei messi insieme, che in tutto ospitano circa 1 milione di rifugiati dalla Siria (dati Eurostat). Nel Paese, solo il 15% dei profughi siriani si trova ora nei campi dell’UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati: gli altri hanno preso in affitto un terreno e hanno costruito tende o case realizzate con mezzi di fortuna, vivendo così nei campi cosiddetti “informali”.
“Le condizioni di vita sono molto difficili”, racconta Hassan, che è il mukhtar (capo villaggio) del campo informale di Jama: la sua comunità è arrivata qui nel 2015. “In estate ci sono 45 gradi, in inverno la temperatura va sotto zero. L’acqua è poca: abbiamo costruito un sistema di raccolta di acqua piovana, che usiamo per lavarci, mentre quella potabile la compriamo da ditte private, ma è molto costosa. Ce la portano con i camion, ogni famiglia ha una sua cisterna. E anche l’elettricità è stata una conquista: all’inizio abbiamo steso un filo lungo 950 metri per attaccarci alla prima cabina elettrica, ma la bolletta era troppo alta, così abbiamo installato dei pannelli solari che coprono parte del nostro fabbisogno. In più, dobbiamo pagare un affitto al proprietario del terreno. Per permetterci tutto questo gli uomini lavorano come braccianti, spesso in nero, ma i soldi non bastano mai”.
Sopravvivere non è semplice: per il momento la Giordania non ha concesso l’asilo politico, dunque i profughi siriani sono ancora richiedenti asilo e non godono dello status di rifugiato. Per questa ragione hanno accesso solo a impieghi non qualificati e per poter lavorare devono pagarsi un permesso di lavoro che costa 60 jod l’anno, pari a circa 80 euro: molti non se lo possono permettere e allora lavorano in nero, soprattutto in agricoltura, senza diritti e pagati 5-6 jod al giorno (circa 7 euro). Non abbastanza per sfamare tutta la famiglia. La maggior parte dei profughi sopravvive allora grazie ai voucher distribuiti dall’UNHCR per comprare generi alimentari di prima necessità, del valore di 23 jod al mese per persona (circa 30 euro). Ma ora che la crisi siriana non è più considerata “emergenza”, anche gli aiuti umanitari stanno diminuendo: le famiglie si ritrovano sempre più povere e senza possibilità di guadagno.
“Io lavoro come cuoca, cucino piatti tipici siriani e li vendo in strada”, racconta Afaf, 42 anni, originaria di Homs, la “capitale” della rivoluzione siriana e una delle città più colpite dalla guerra. Oggi vive in un piccolo appartamento nella città di Mafraq insieme ai suoi genitori, il marito, due figli e le cognate. “Mi occupo io di tutta la famiglia. Il mio primo marito è morto in guerra e mio padre mi ha costretto a risposarmi con un cugino, che è invalido da quando un proiettile gli ha colpito la gamba durante i combattimenti. Lui non può lavorare, così penso a tutto io”. Afaf ha il viso incorniciato da un velo nero. La sua espressione è dura, ma gli occhi sono stanchi. Con la sua attività guadagna circa 30 euro al mese: senza gli aiuti dell’UNHCR non potrebbe sopravvivere. Ultimamente ha sofferto di una forte depressione e ha comportamenti ossessivo compulsivi, ma non sta ricevendo adeguato supporto psicologico: “In Siria ho assistito a violenze disumane -racconta-. Stupri, torture, omicidi. Ancora oggi, quando cammino per strada, controllo sempre di non essere seguita, che non ci siano militari intorno, e ho un forte senso di colpa verso i miei genitori: vorrei fare di più per loro, ma non ci riesco”.
Sono tante le donne che, come Afaf, si fanno carico di tutta la famiglia perché il marito è rimasto in Siria, è in prigione, è morto oppure è invalido. La violenza di genere è molto diffusa tra i profughi siriani e alcune donne sono vittime di abusi sessuali e molestie, ma spesso non denunciano per paura di essere stigmatizzate. Oltre a loro, il gruppo più vulnerabile è quello dei bambini: secondo i dati Unicef, in Giordania circa il 40% dei minori siriani ha abbandonato la scuola e ora lavora per aiutare la famiglia. C’è poi il problema dei matrimoni forzati: molte ragazzine vengono date in sposa giovanissime, così la famiglia ha una piccola entrata e non deve preoccuparsi di mantenere una persona in più.
E poi ci sono bambini che subiscono abusi e violenze. Madiha, che ha solo sei anni, è rimasta 65 giorni in ospedale per riprendersi dalle torture subite da parte del compagno della madre: “Questa violenza è strettamente legata alla guerra”, spiega Naseem Mohammad Fawareh, operatore di Vento di Terra, Ong che si occupa di darle sostegno psicologico. “Il padre è stato ucciso negli scontri e la madre è stata costretta a risposarsi. Il nuovo marito era violento e picchiava lei e la figlia: colpiva la piccola sul viso, le strappava i capelli e le spegneva le sigarette addosso. Quando è arrivata da noi, la bambina era irriconoscibile”.
Vento di Terra opera nella provincia di Mafraq organizzando attività educative per supportare i minori e le donne siriane che vivono nei campi informali. È così che il team di protezione ha incontrato Madiha, che oggi vive in un campo con gli zii e la loro figlia appena nata. “All’inizio Madiha era molto aggressiva e quando ero incinta mi picchiava sulla pancia”, racconta la zia, 19 anni. “Adesso sta molto meglio: è sorridente e sta iniziando a giocare con gli altri bambini, anche se di notte fa ancora gli incubi”.
A poche centinaia di metri dalla casa di Madiha si scorge una distesa di piccoli prefabbricati bianchi, di cui non si vede la fine. È Zaatari, il più grande campo di profughi siriani al mondo, uno dei quattro in Giordania insieme ad Azraq, Zarqa e Rubkan. A inizio 2020 ci vivono 76mila persone: gli stessi abitanti di Varese o Caserta. Il 20% di loro sono bambini, mentre il 30% sono donne che si occupano da sole di tutta la famiglia. All’interno del campo, gestito dall’UNHCR in collaborazione con il governo giordano, ci sono 32 scuole, due ospedali, 12 centri di salute primaria, due grandi supermercati e una via di negozi e attività che è stata soprannominata Champs Élysées. Qui si possono trovare ristoranti, coffee shops, barbieri, meccanici, alimentari e addirittura negozi di abiti da sposa. Sulla strada gli uomini sfrecciano in bicicletta o sul dorso di un asino che traina un carretto pieno di merce, mentre le donne camminano lente portando grosse buste della spesa e i bambini si divertono a fare le linguacce specchiandosi nelle vetrine.
Ci sono 45 organizzazioni non governative che lavorano all’interno del campo, dove ogni aspetto della vita sembra organizzato: ogni famiglia ha il proprio prefabbricato con angolo cottura e bagno, sono state costruite reti idriche e fognarie e tutti hanno accesso ai servizi sanitari ed educativi. Nei supermercati del World Food Program si possono acquistare beni di prima necessità grazie a un sistema di eye screening che riconosce la retina, mentre l’elettricità è assicurata per 15 ore al giorno dal più grande parco solare mai costruito in un campo profughi, con un’estensione di 33 campi da calcio.
Anche se le condizioni di vita dentro Zaatari sono nettamente migliori che all’esterno, il campo resta però una prigione dorata: i siriani possono entrare e uscire solo con un permesso di lavoro o di studio (ce l’hanno solo 13.500 persone su 76mila), oppure per andare a visitare familiari o amici per brevi periodi. Chi viene trovato fuori dal campo senza un permesso viene immediatamente arrestato e rischia il rimpatrio in Siria: secondo Human Rights Watch, solo nei primi cinque mesi del 2017 la Giordania ha espulso circa 2mila siriani cui si aggiungono altri 2.500 tornati in Siria senza conoscere le circostanze e 1.500 rimpatri che figurano come volontari. Per non rischiare l’arresto, i siriani rimangono nei campi senza alcuno scopo, semplicemente aspettano: aspettano che gli venga riconosciuto l’asilo politico, oppure aspettano che la guerra finisca, per poter tornare a casa. Il loro unico orizzonte, per il momento, è l’attesa.
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