Diritti / Intervista
“Fermare il genocidio, poi parlare di pace. Il boicottaggio delle università è fondamentale”
Continuano le mobilitazioni negli atenei per chiedere lo stop dei progetti congiunti di ricerca tra Italia e Israele. Federica Stagni, assegnista di ricerca della Scuola Normale di Pisa, è tra i firmatari della lettera inviata al ministero degli Esteri per chiedere di interrompere la collaborazione con Tel Aviv. L’abbiamo intervistata
“Sentiamo forte la responsabilità etica del nostro lavoro all’interno della società”, conclude nell’ultimo comunicato dell’8 aprile il comitato estensore della lettera con la quale oltre 2.500 docenti e accademiche italiane hanno chiesto al ministero degli Esteri (Maeci), a fine febbraio, la sospensione del bando per progetti di cooperazione scientifica e tecnologica tra Italia e Israele in scadenza il 10 aprile. “Sappiamo che il bando è solo la punta dell’iceberg -scrivono- del più ampio problema delle commistioni tra università, industria bellica e complicità con il sistema di occupazione e apartheid in Palestina”.
Una nuova presa di posizione dopo settimane di acceso dibattito a seguito delle delibere di sospensione alla partecipazione al bando adottate dall’Università di Torino, Bologna e dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Il 9 aprile, giornata di mobilitazioni in diversi atenei italiani, si è aggiunta anche l’Università di Bari: la seduta straordinaria del Senato accademico, convocata dopo che il rettore ha annunciato le sue dimissioni dal comitato scientifico della Fondazione Med-Or, legata al colosso italiano degli armamenti Leonardo Spa, si è conclusa con il voto a favore della mozione che chiede il cessate il fuoco e la decisione di sfilarsi dal progetto.
“Il rischio di dual use e la violazione del diritto internazionale e umanitario” sono le motivazioni che hanno spinto i firmatari, come già raccontato su Altreconomia, a chiedere al ministero un passo indietro. Tra questi c’è anche Federica Stagni, assegnista di ricerca in Scienza politica e sociologia alla Scuola Normale superiore di Pisa che da anni si occupa di diversi temi legati alla questione palestinese: dalla resistenza dei movimenti rurali nei territori occupati, al femminismo fino alle pratiche di opposizione agli sfratti dei coloni. Anche nell’ateneo toscano si è discusso molto dell’accordo.
Stagni, in queste settimane in diversi hanno espresso contrarietà alla messa in discussione del bando promosso dal Maeci. Si dice che l’università costruisce ponti e quindi favorisce la pace. La trova d’accordo questa lettura?
FS Sicuramente la questione del boicottaggio accademico è spinosa. Il punto è che se si vuole promuovere la pace allora il primo passo è fermare il genocidio: se non c’è un’interruzione dei bombardamenti, la fine della fame forzata per gli abitanti della Striscia, l’apertura del valico di Rafah degli aiuti umanitari come si può parlare di pace? Israele che non sta rispettando quanto prescritto dalla Corte internazionale di giustizia e allora il boicottaggio diventa una strategia politica per rendere il genocidio “costoso”. Anche dal punto di vista economico: perché l’interruzione degli accordi con le università ha un impatto notevole anche su questo aspetto. Di pace si potrà parlare quando smetteranno di morire i civili.
Ci racconta perché la Scuola Normale di Pisa ha deciso di fare un passo indietro rispetto all’accordo?
FS Purtroppo in realtà ne ha fatto solo mezzo indietro. Si è creata molta confusione su questo. Provo a fare chiarezza. In seguito alla repressione violenta su studenti e studentesse a Pisa c’è stata una forte mobilitazione in tutta la città e nella comunità accademica. Il collettivo “Trame”, interno alla Normale, ha fatto pressione sul Senato accademico che poi si è svolto il 26 marzo chiedendo diverse cose. Il ritiro della Scuola Normale dal bando del Maeci, la fine dei comunicati congiunti con la Sant’Anna, per i numerosi accordi di ricerca che ha su tecnologie militari, e poi l’esposizione della bandiera palestinese -come fatto con l’Ucraina- e momenti di confronto tra studenti, studentesse ed accademici. La discussione in Senato accademico è stata molto tesa. Non si è neanche parlato della questione dei comunicati stampa mentre, con riferimento al bando del Maeci, non è stata votato un effettivo “ritiro”. Nel verbale si esprime solidarietà nei confronti dell’aggressione alla popolazione civile e si afferma la necessità di ispirare le attività di insegnamento all’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra. E poi ci si impegna a esercitare la “massima cautela e diligenza” nel valutare accordi istituzionali e proposte di collaborazione scientifica che possano attenere allo “sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari come avviene a Gaza”.
E con riferimento al bando del Maeci?
FS Nei fatti viene chiesto al Maeci e al ministero dell’Istruzione (Miur) una verifica sull’accordo per assicurare che rispettino i principi costituzionali. Viene poi conferito il mandato al direttore di farsi portavoce in ogni sede istituzionale delle posizioni espresse nella mozione. Questo a mio avviso è un problema. Perché da un lato diciamo che ci si impegna a vagliare le collaborazioni in atto ma non si capisce chi dovrebbe farlo: servirebbe una commissione etica indipendente. Tra l’altro il direttore stesso ha poi specificato di non aver boicottato “niente”, anche perché non c’erano collaborazioni in atto.
Dopo Torino, la prima università che si è sfilata dal bando, si accusa la “comunità accademica” di aver ceduto alle pressioni di studenti e studentesse “colpevoli” di aver creato un clima di tensione. Che cosa ne pensa?
FS Gli studenti si sono mobilitati e sicuramente hanno fatto pressioni importanti. Attenzione però perché anche nella comunità accademica si sono mossi in tanti e tante: dai lavoratori esternalizzati agli amministrativi. Insomma c’è stato un movimento ampio. All’Università di Bologna dopo il comunicato che chiede il cessate il fuoco e il boicottaggio accademico, anche su un accordo specifico con l’Università di Ariel che è proprio nei territori occupati in Cisgiordania, si sono creati subito numerosi tavoli di lavoro e si è creata una forte sinergia tra docenti e studenti. Che sicuramente hanno fatto una pressione in quanto attore collettivo: loro hanno la possibilità di metterci la faccia ma dietro il collettivo o l’organizzazione. I docenti quando firmano, quando fanno lezione o nel Senato accademico e prendono posizione lo fanno spesso a scapito della loro carriera. Sappiamo che in Svizzera e in Germania persone che si sono pronunciate contro il cessate il fuoco sono state allontanate. Fino al caso più eclatante di Shalhoub-Kevorkian della Hebrew University che è stata detenuta e le è stato ritirato il passaporto perché da israelo-palestinese ha criticato la natura sionista dello Stato israeliano. Però su questo è importante specificare un aspetto.
Quale?
FS I docenti hanno la responsabilità morale di essere portatori di una conoscenza situata: noi abbiamo il privilegio di avere accesso a tutta una serie di materiali e di storia, conoscendo il conflitto, ancor prima del movimento sionista fino alla colonizzazione britannica (di cui si parla spesso troppo poco) e quindi il dovere di far sentire le nostre voci informate.
Voci antisemite? In diversi vi accusano di questo.
FS Riprendo le parole di Davide Grasso che secondo me ha centrato il punto. Racconta di come l’antisemitismo è storicamente consolidato in Italia, anche nella sinistra. Ma quello che lui riporta è la critica ebraica che viene fatta al sionismo: nel momento in cui la presa di posizione arriva da chi è ebreo e ha una prospettiva ebraica -penso tra gli altri Ilan Pappé– si crea un cortocircuito. Come si fa ad accusarli di antisemitismo? In Germania, persone che lavoravano nei musei della memoria sono state licenziati e ai membri dell’associazione Jüdische Stimme sono stati congelati i conti per la loro posizione contraria a quello che stava facendo Israele in Palestina. Allora è importante distinguere antisemitismo a critica dello Stato di Israele. E poi quando si punta a bandi di cooperazione tecnologica non c’è in gioco la questione dell’ebraismo: l’unica cosa che si sottolinea è il fatto che questi accordi possono portare allo sviluppo di armi e di tecnologie che possono renderci complici, come istituzioni universitarie e come Paese, del genocidio. In secondo luogo bisognerebbe fare una riflessione su come il frutto di questa ricerca venga poi utilizzato in Europa.
Cioè?
FS Tutta la tecnologia sul riconoscimento facciale sono state sviluppate in Israele, poi acquistate dalla Commissione europea proprio per utilizzare in Europa e quindi per il riconoscimento delle persone sulle frontiere. E il primo ambito in cui verranno utilizzate saranno le frontiere per “combattere” l’immigrazione irregolare. Tutto torna. Bisogna fare attenzione: si parla di antisemitismo quando si intaccano interessi economici anche dell’Italia, penso appunto alle università, ma non guarda a caso quando ad assumere posizioni dichiaratamente antisemite sono stati rappresentanti della politica italiana. In questo modo si indebolisce la “potenza” stessa del termine antisemita.
Perché il boicottaggio allora diventa utile?
FS Perché colpisce le istituzioni e non i singoli. Smettere di collaborare con un’università che, come è successo con la Hebrew University, ha allontanato i propri docenti, credo fortemente sia doveroso e utile per la fine delle barbarie nella Striscia. Ce l’ha insegnato il Sudafrica, in cui questo aspetto è stato fondamentale per la fine dell’apartheid.
Nel nuovo comunicato scrivete che “la potenziale partecipazione, diretta o indiretta, a un sistema che disumanizza ‘gli altri’ è un problema che inquina la ricerca pubblica italiana in maniera strutturale”. Le istituzioni universitarie hanno paura della troppa attenzione su questo specifico accordo perché rischia di far emergere i tanti altri problematici già esistenti con il settore militare?
FS Credo che questo sia il punto. E le strette relazioni con Leonardo, impegnata nella produzione di armamenti è solo uno degli esempi. Ma è importante che questi problemi emergano perché l’Università deve restare uno spazio libero e c’è uno spazio di azione e di riflessione. Penso alla conferenza di Omar Barghouti a Bologna, invitato anche in Comune. Questo spaventa le istituzioni perché non sanno come porsi di fronte a questo dissenso. L’uso della violenza politica ne è la conseguenza: la repressione delle manifestazioni è frutto dell’impreparazione. Sono tanti gli aspetti che si tengono insieme, anche la precarietà. Quando hai contratti molto brevi è difficile fare lavoro “politico” dentro le università, perché non fai in tempo e corri grandi rischi nell’esporti.
Non si è mai parlato così tanto, negli ultimi anni, di università. Qualcuno parla addirittura di “clima da Sessantotto”: forse era anormale il “silenzio” che ha caratterizzato gli anni passati?
FS Il genocidio tiene dentro tante questioni e sicuramente le relazioni con il comparto israeliano è la punta di un iceberg, emersa in queste settimane, che però ha sotto tante altre cose. Che è doveroso che emergano.
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