Interni / Reportage
Fatiche e speranze di chi vive nelle aree interne italiane
Isolamento e mancanza di servizi: il 20% delle famiglie che in Italia vive in stato di povertà relativa abita in queste zone. La Strategia nazionale adottata più di dieci anni fa per sostenerle non ha ancora dato i frutti, lamentano alcuni amministratori
“Quando passo davanti al capannone abbandonato ci ripenso. Sono stato bene lì”. Il capannone è quello della Caleppio, ex fabbrica di prodotti plastici di Sulmona (AQ). Dopo lavori duri e senza orari, un ex operaio, che chiameremo Carlo, credeva di aver trovato una sistemazione sicura e definitiva. Oggi, a 52 anni, vive con una pensione di invalidità di 340 euro al mese. Ci incontriamo nella sede della Caritas diocesana dove viene a prendere un pacco alimentare. Lontano dalle città, le parrocchie sono ancora il primo (e a volte unico) presidio di ascolto e aiuto per chi è in difficoltà. Carlo vive in un’area interna. Il suo Comune rientra in una di quelle porzioni di territorio più distanti dai servizi primari (sanità, scuola, mobilità) oggetto di una specifica strategia di contrasto a spopolamento e marginalizzazione: la Strategia nazionale per le aree interne (Snai).
Una recente indagine dell’Istituto di ricerche educative e formative (Iref) ha proiettato un cono di luce su questi territori e sul rischio esclusione nell’Italia dei (cosiddetti) borghi. Lo studio parte dalle dichiarazioni dei redditi del triennio 2019-2021, processate dai Caf delle Acli. I ricercatori hanno sovrapposto 600mila dichiarazioni dei redditi alla mappa delle aree Snai, per analizzare la distribuzione territoriale delle famiglie in povertà relativa. Quelle, cioè, con un reddito inferiore al 60% di quello mediano familiare italiano: meno di 8.400 euro per il 2021. Non poveri assoluti quindi, ma famiglie un gradino più su, per le quali una sola variabile negativa può significare cadere nel baratro.
La solidità dell’analisi è data dall’ampiezza del : 1,2 milioni di modelli 730 -oltre 600mila famiglie, appunto- dai quali emerge un differenziale evidente tra città e piccoli centri. Ogni cinque famiglie in povertà relativa una è residente nelle aree interne (20,2%). Nei poli urbani la quota di famiglie relativamente povere è del 7,6%, contro il 12,8% nei Comuni ultraperiferici. Allo stesso tempo, man mano che ci spostiamo verso i paesi più remoti, il reddito scende di quasi tremila euro: da 16.690 a 13.911 euro.
La ricerca Iref analizza anche l’interazione tra territorio e struttura familiare, suddividendo i dichiaranti per tipologia di nucleo (monoreddito, bireddito, con figli o disabili a carico). Chi vive nelle aree interne ne esce sempre penalizzato: una famiglia in cui tutti e due i coniugi lavorano guadagna quasi quattromila euro in meno. Ciò che incide di più sul rischio esclusione sono la presenza di carichi familiari, l’avere un solo reddito e una certa condizione di solitudine. Un rischio amplificato dal territorio di provenienza.
Sono 668mila le famiglie coinvolte nel panel di ricerca. Studiati i redditi del triennio 2019-2021 di chi si è rivolto ai Caf Acli su tutto il territorio nazionale
Alla Caritas di Sulmona incontriamo anche Maria (nome di fantasia). Ha due figli. Il più grande è un ragazzo con disabilità che avrebbe bisogno di assistenza per 24 ore al giorno. La sua condizione è stata pesantemente aggravata dal Covid-19. Per anni, la famiglia di Maria si è sostenuta con il solo reddito, discontinuo, del marito operaio edile. Ora anche lui non lavora a causa di un infortunio. Percepivano 500 euro di reddito di cittadinanza. Con l’assegno di inclusione, l’importo è calato a 380. “Tutti conoscono la mia situazione -commenta sconsolata- ma invece di migliorare, la realtà per noi va sempre peggio”.
“C’è una retorica che colpevolizza il povero urbano ed elogia quello rurale -ricorda Gianfranco Zucca, uno degli autori della ricerca Iref- in quanto avrebbe uno stile di vita più dignitoso. Questa ricerca in realtà ci dice che i poveri nelle aree interne sono numericamente meno ma la loro condizione è più severa, in virtù degli extra-costi del vivere in una zona remota. Basta pensare all’obbligo di avere un’automobile. Sono vittime di una doppia deprivazione: non hanno sufficienti risorse economiche e non possono godere di servizi pubblici adeguati”.
La vicenda dell’ex operaio Carlo è emblematica. Dopo essere stato licenziato, lavora “in somministrazione” alla Magneti Marelli che produce sospensioni per la Stellantis di Atessa in Val di Sangro. Quasi tre anni e una prospettiva di stabilizzazione svanita per colpa della crisi: “Nel 2008 un sindacalista ci disse che i contratti erano pronti. Dieci giorni dopo ci comunicarono che l’azienda non poteva mantenere gli impegni presi”. A quel punto l’unica alternativa è un a Chieti. Lavora dalle 14 alle 21 e rientra a notte fonda per meno di 700 euro al mese. La comparsa di problemi fisici, anche dovuti ai precedenti impieghi usuranti, lo portarono a desistere dalla ricerca di un nuovo lavoro per accontentarsi della pensione di invalidità.
Nella Valle Peligna la fine della parabola industriale ha determinato precarietà e abbandono. “Quello di Sulmona è stato uno dei più importanti nuclei industriali del Centro Sud -ricorda l’ex sindacalista Cgil, Domenico D’Aurora-, e dava occupazione a molti Comuni dell’entroterra. Finite le risorse della Cassa del Mezzogiorno è cominciato un drammatico processo di deindustrializzazione. È emersa tutta la fragilità di questi insediamenti. Aziende destinate all’assemblaggio che non facevano ricerca e innovazione. Il luogo in sé non era strategico”. Oggi Sulmona non arriva a 22mila abitanti e secondo le proiezioni potrebbe scendere sotto i 20mila entro il 2030. “I giovani studiano fuori, ma che tipo di occupazione qualificata possono trovare qui? Questo determina un impoverimento culturale e tecnologico”, aggiunge D’Aurora.
Nel 2013 è stato adottata la Strategia nazionale delle aree interne (Snai) che mira a contrastare nel medio periodo il declino demografico nelle aree interne. Siamo al secondo ciclo di programmazione (2021-2027) e, nei primi dieci anni di attuazione (2014-2023) sono stati stanziati 591,2 milioni di euro
C’è una correlazione tra povertà e invecchiamento della popolazione, sottolinea la professoressa Luisa Corazza, che dirige il Centro di ricerca per le aree interne dell’Università del Molise: “Questi redditi derivano in gran parte da pensioni -afferma, commentando lo studio Iref-. Quando queste dipenderanno totalmente dal sistema contributivo, come sarà la condizione delle aree interne?”. Non solo: “Spingere tutto su turismo e agricoltura, settori nei quali si annida maggiormente il lavoro povero, potrebbe avere dei contraccolpi in termini di aumento del tasso di povertà relativa. Bisogna pensarci in sede di definizione delle politiche pubbliche”.
Risalendo verso L’Aquila, a mezz’ora d’auto, c’è Molina Aterno, paese di 350 abitanti. “Questa è la più interna di tutte le aree dell’Abruzzo”, sostiene il sindaco Luigi Fasciani. Siamo nell’area Gran Sasso-Valle Subequana. La Regione ha perimetrato in totale sette aree interne, in cui rientrano 139 Comuni. “Gli indici economici e sociali sono i più negativi di tutta la Regione: Prodotto interno loro (Pil), reddito pro capite, insediamenti commerciali e produttivi -riprende Fasciani-. Ciò detto, la povertà è un fenomeno meno visibile che altrove. Sono luoghi accoglienti e inclusivi”. L’impoverimento del territorio, ne è convinto, è figlio della dismissione delle attività produttive così come delle privatizzazioni che hanno tagliato i “rami secchi”: “Molti abitanti di Molina lavoravano alla manutenzione della linea ferroviaria. La nostra stazione era uno snodo importante sulla tratta Sulmona-L’Aquila”.
“Gli indici economici e sociali sono i più negativi di tutta la Regione. La povertà però è un fenomeno meno visibile che altrove” – Luigi Fasciani
Nei piccoli centri i servizi sociali sono delegati a un ente sovra-comunale (qui è l’Ente capofila di ambito distrettuale, Ecad, numero cinque) che ne ha accorpati tre. Serve 42 Comuni, circa 35mila abitanti. Un’area vasta che arriva fino alle pendici del Gran Sasso. “Io l’ho contrastato quell’accorpamento e stiamo lavorando per creare un sub-ambito -rimarca Frasciani-. Per ricollocare i servizi più vicini alla popolazione”. Pesa anche la dismissione delle Comunità montane, che, di fatto, stanno rinascendo sotto forma di Unione dei comuni montani. Se altrove erano considerate simbolo di sprechi qui erano un presidio importante per dare voce al territorio. “Un’istituzione utile e partecipata”, aggiunge la sindaca di Fontecchio, Sabrina Ciancone, altro paese della Valle Subequana di circa 300 abitanti.
Da qui come si valuta la Strategia nazionale delle aree interne (Snai) a dieci anni dal suo avvio? “Non voglio fare un bilancio perché i primi fondi sono arrivati a fine 2021 -risponde Fasciani-. Deve però essere più snella. L’accordo di programma per sbloccare i primi fondi è stato siglato dal mio Comune, dalla Regione e da sette ministeri. Per la prossima programmazione serve una semplificazione amministrativa anche per la rendicontazione: non abbiamo il personale”. “C’è stato da subito interesse ed entusiasmo per la Snai -aggiunge la sindaca Ciancone-. A oggi, i fondi destinati al turismo e alla formazione non sono stati minimamente toccati mentre quelli per l’agricoltura hanno avuto un ritorno solo parziale. Considerando la complessità di costruzione di tutta la strategia è stato partorito un topolino”.
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