Diritti / Opinioni
L’ergastolo ostativo, inumano e degradante
La sentenza della Corte europea dei diritti umani è chiarissima. In Italia, però, in nome del populismo, non c’è spazio per adeguarsi. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Dieci anni fa la Corte europea per i diritti umani condannò lo Stato italiano per non avere tutelato la libertà d’espressione e il diritto a un processo equo di Luigi Lombardi Vallauri, docente di filosofia del diritto fra i più noti e originali del nostro Paese. Il professore dieci anni prima era stato allontanato dall’Università Cattolica di Milano, nella quale insegnava con contratto annuale da un ventennio, perché le sue posizioni, a detta del Vaticano, titolato a esprimere un formale gradimento in base al Concordato fra Chiesa e Stato, erano ormai “in netto contrasto con la dottrina cattolica”. Lombardi Vallauri a quel tempo aveva già incontrato le filosofie orientali, ma il suo attrito con la Chiesa si formò proprio sul punto di una valutazione strettamente giuridica della dottrina cattolica. Il professore fra le altre cose contestava il dogma dell’inferno, a suo giudizio “incostituzionale”, poiché nessun reato per quanto grave può meritare una pena eterna, e perché -parole sue- “è contraria ai princìpi più avanzati del diritto, e specificamente del diritto influenzato dal cristianesimo, una pena che in nessun modo tenda alla rieducazione/riabilitazione del condannato”. L’episodio torna alla mente a causa del nuovo conflitto ingaggiato dallo Stato italiano con la Corte di Strasburgo. Il caso riguarda Marcello Viola, condannato per mafia al cosiddetto ergastolo ostativo, misura che esclude dalla possibilità di accedere ai “benefici penitenziari” e agli sconti ammessi per gli altri detenuti.
1.106: gli ergastolani attualmente sottoposti al regime speciale previsto dall’articolo 4bis del codice penitenziario (ergastolo ostativo). 375 di questi sono in cella da più di 25 anni, altri 628 da almeno un ventennio
È il “fine pena mai”. Per i giudici di Strasburgo l’ergastolo ostativo è un “trattamento inumano e degradante” contrario all’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani e la norma andrebbe dunque cambiata. Le reazioni italiane sono state piuttosto dure, sia in ambito giudiziario, in testa i magistrati più impegnati nella lotta alla mafia, sia in ambito politico. Si sostiene che ammettere a possibilità -da valutare caso per caso- di avere dei benefici nel trattamento penale sarebbe un regalo alla mafia e un indebolimento dello Stato. Il ministro degli Esteri e capo del principale partito di governo, Luigi Di Maio, è stato addirittura categorico: “Non faremo mai una legge per adeguarci alla sentenza”. Alcune voci si sono levate a favore del giudizio di Strasburgo -fra queste, quelle di tre ex presidenti della Corte costituzionale-, ma siamo di fronte a uno scontro che fa dubitare ancora una volta sulla reale persuasione, da parte di governanti e importanti apparati dello Stato, che i princìpi scritti nella Convenzione siano ancora attuali e prioritari. Una forte insofferenza politica si era già manifestata negli anni scorsi in almeno due occasioni: dopo le condanne subite dall’Italia per le vicende del G8 di Genova del 2001 e dopo quella inflitta per la reiterazione del carcere duro (il 41bis) a carico di Bernardo Provenzano, anche negli ultimi suoi mesi di vita, quando il boss mafioso versava in condizioni fisiche e cognitive compromesse.
In un libro intitolato “Punire. Una passione contemporanea” (Feltrinelli, 2018), Didier Fassin metteva in guardia dalla pericolosa miscela che si forma quando alla “intolleranza selettiva della società”, con la richiesta di leggi più dure e pene più severe, si somma il “populismo penale della politica”. Nell’era del castigo che ne deriva, c’è poco spazio per i princìpi della Convenzione sui diritti umani, architrave giuridico e filosofico -non dimentichiamolo- delle democrazie nate sulle macerie della Seconda guerra mondiale, esito tragico e supremo dei nazionalismi europei.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.
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