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Economia / Intervista

Elogio delle tasse: perché servono per garantire diritti e democrazia

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Il costituzionalista Francesco Pallante analizza in un saggio la progressività fiscale e l’impianto tributario dello Stato. E spiega perché le tasse servono a mantenere la pace e ad attuare i diritti costituzionali, che hanno un costo

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021

Tra i molti pregi dei libri di Francesco Pallante -professore di Diritto costituzionale all’Università di Torino- spicca la capacità di non scendere (intellettualmente) a compromessi, mediazioni consolatorie o comode ambiguità. Non fa eccezione “Elogio delle tasse” che sin dal titolo prende posizione, forte di profonda analisi e robusto apparato di dati e studi. Il tutto in un saggio sintetico, non sbrigativo, chiaro nell’esposizione e limpido nella struttura.

Professor Pallante, elogiare le tasse suona provocatorio. Di solito sulla questione il tenore è l’opposto. È un problema innanzitutto culturale.
FP C’è certamente una matrice profonda, legata al fatto che nessuno è contento che gli venga tolto qualcosa che pensa sia suo. Già nella Bibbia i pubblicani, esattori delle imposte per conto dei romani, sono peccatori al pari di meretrici e farisei. Il problema innanzitutto è aver rotto il legame tra la raccolta e l’impiego delle risorse. Secondo alcuni studi, non vi è evidenza che i danesi siano meno inclini degli italiani a disprezzare le tasse, però lo Stato danese è meglio in grado di mostrare come vengono utilizzati i soldi riscossi.

Vi è dell’altro. Nella sua essenza, la polemica antifiscale è in realtà una polemica antistatale. Tale polemica ha uno sfondo ideologico preciso -si pensi a Reagan o a Thatcher-, ostile alle politiche redistributive. Per tornare indietro nel tempo, è l’antico problema democratico: l’arrivo dei “più” -il popolo- è un pericolo per i benestanti. Nell’antichità il demos era composto dai poveri.Il nodo sta tutto lì: nel timore che i meno abbienti pretendano una redistribuzione di ricchezza. Reagan amava ripetere che le parole più terrificanti sono “Io sono del governo e sono qui per aiutarti”. Questa visione, per cui lo Stato è il male, è portatrice della versione più dura della polemica antifiscale. E infatti dove questa visione ha governato abbiamo assistito al graduale smantellamento del ruolo dello Stato, che peraltro facendo sempre meno sembra confermare -in un circolo vizioso- la visione antistatale. Nella realtà, poi, il cosiddetto “Stato minimo” non è uno Stato debole, semmai tutt’altro, perché deve avere la forza di tenere a bada i “più”. E per farlo opera uno spostamento di ricchezza inverso, dal basso verso l’alto.

“La Costituzione italiana pensa al prelievo fiscale come a un’operazione di redistribuzione della ricchezza a protezione dei più deboli”

La tesi centrale del libro è che solo le tasse consentono allo Stato di fare le due cose che deve fare, entrambe molto costose: mantenere la pace e dare attuazione ai diritti costituzionali.
FP La tesi di chi crede che l’individuo possa fare tutto da sé non è credibile. È una costruzione ideologica che non regge di fronte alla realtà. Senza lo Stato c’è la guerra civile, come scrive Hobbes, che la guerra civile la vedeva fuori dalle sue finestre. È lo Stato che ci consente di vivere in maniera il più possibile pacifica. Una volta stabilita la pace, ci si può interrogare sulla desiderabilità del mondo che si ha intorno e decidere se lasciarlo com’è o provare a cambiarlo. Il cambiamento è dato dal riconoscimento dei diritti costituzionali. I diritti sono un progetto di società. Per il quale, però, servono soldi. Dove prenderli? Dalla società. La Costituzione italiana pensa al prelievo fiscale come a un’operazione di redistribuzione della ricchezza a protezione dei più deboli.

Un libro di qualche anno fa ha spiegato che “tutti i diritti costano”: ovvero costa tutelarli e promuoverli. Spesso si pratica una divisione concettuale tra libertà positive e negative. Nel primo caso, affinché io possa esercitare un mio diritto è sufficiente che lo Stato non faccia nulla per impedirmelo. Sarebbe il caso della libertà di circolazione. Nel secondo -come per il diritto alla salute- è invece necessario un intervento che renda fruibile quel diritto, per esempio costruendo gli ospedali. Ma è una divisione sbagliata. In realtà tutti i diritti hanno un costo, anche solo perché ciascun diritto deve poter essere difeso in giudizio, e il sistema giudiziario costa. Ma c’è di più: se ci pensiamo, senza le strade, che costano, nessuno potrebbe esercitare la libertà di circolazione. Anche tutelare la proprietà privata costa, e quindi è necessario lo Stato. Difficile dire quale diritto costi di più, ma in ogni caso tutti costano e lo Stato ha bisogno di risorse per attuarli.

Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino. È autore di “Il neoistituzionalismo nel pensiero giuridico contemporaneo” (Jovene, 2008) e “Contro la democrazia diretta” (Einaudi, 2020). Con Gustavo Zagrebelsky ha scritto “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali (Laterza, 2016)

Il passo successivo è dunque come e quanto tassare. Necessario tornare alla progressività di Luigi Einaudi (e al monito di don Milani per il quale “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”).
FP Ovviamente, non è scontato che il sistema tributario sia giusto. Se lo si ritiene ingiusto (e quello attuale lo è), si lotti per cambiarlo. Il mio elogio è rivolto alle tasse in generale, non al sistema attuale. La nostra Costituzione è documento politico: non è neutrale, fa scelte. La scelta fondamentale è quella di offrire a tutti eguaglianza di punti di partenza. A questo servono i diritti. E a questo serve la progressività fiscale, per la quale più aumenta la ricchezza, più aumenta la percentuale di tasse da pagare. Einaudi, nelle “Lezioni di politica sociale” del 1944, fa l’esempio della minestra e della poltrona: tutti hanno diritto alla minestra, chi può permettersi la poltrona a teatro -cioè un bisogno meno essenziale- andrà tassato di più. Questa visione entra nella Carta costituzionale, che all’articolo 53 recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma attenzione: la progressività non è un “contro”, ma un “a favore”. Non è contro i ricchi, ma a favore della collettività. Nessuno può opporsi razionalmente all’idea di dare a tutti pari opportunità di realizzare se stessi, anche a chi, non per colpa sua, è nato in condizioni sfortunate.

Eppure oggi in Italia, su 500 miliardi di euro circa, meno del 40% sono progressive.
FP Sì, oggi i ricchi pagano poco, tutti gli altri (non solo i poveri, anche la classe media) troppo. Solo 10 milioni di contribuenti superano il 15% di aliquota reale, tra detrazioni, esenzioni etc. Tuttavia, quando anche solo si accenna a un “contributo di solidarietà”, scatta la retorica del “mettere le mani in tasca” a tutti i cittadini, senza distinzioni. Val la pena tornare all’impostazione di Einaudi, che non contrapponeva tra di loro classi sociali, sostenendo invece che, poiché siamo tutti parte della società, chi ha di più deve contribuire di più nell’interesse di tutti.

10 sono i milioni di contribuenti in Italia che superano il 15% di aliquota reale

Una questione di giustizia, prima ancora che economica.
FP È un’idea che si ritrova in John Rawls (“Una teoria della giustizia”, 1971). La cosa straordinaria della sua teoria è l’esperimento mentale -stendere un velo di ignoranza su noi stessi- col quale riesce a saldare la giustizia intersoggettiva con la razionalità individuale, dimostrando come, senza condizionamenti derivanti dal proprio interesse particolare, giustizia e razionalità si incontrano nel porre gli “ultimi” nella condizione migliore possibile. Un’argomentazione potente, che ribadisce una volta di più che la somma di tanti interessi individuali non fa l’interesse generale.

Torniamo alla Costituzione.
FP Il dibattito costituente in tema di fiscalità è molto intenso: il punto di partenza sono le imposte previste dallo Statuto Albertino che sono proporzionali. È chiaro che sono ingiuste perché fanno pagare tutti, ricchi e non ricchi, nello stesso modo. I costituenti cristiano-sociali propongono la progressività, e trovano sponda in alcuni esponenti del Pci coi quali si accordano. È interessante inoltre notare che l’argomento viene inserito nella cornice dei diritti politici, non di quelli economici. Questo perché i tributi fanno parte della visione politica, prima che economica, della società. Il democristiano Salvatore Scoca fu uno dei maggiori fautori della progressività; si spinse anche oltre, demonizzando le deroghe che oggi invece sono all’ordine del giorno: riconobbe nelle deroghe un potenziale strumento di politica economica, ma ponendo ad esse limiti, anche di tempo e chiedendo fossero approvate a maggioranza assoluta, per evitare favori di parte. Questa idea non passerà. Rimane il principio di progressività, di ridistribuzione della ricchezza di impronta einaudiana, ma non ci sono limiti alle deroghe. C’è inoltre l’importante consapevolezza del passaggio dall’imposta reale a quella personale: che consideri cioè la condizione del contribuente, non le cose tassate in quanto tali. È più complicato, ma più giusto, perché lo stesso bene in mano al ricco o al povero sarà tassato diversamente.

“La polemica antifiscale è in realtà una polemica antistatale. Ha uno sfondo ideologico preciso -si pensi a Reagan e Thatcher- ostile alle politiche redistributive”

La progressività troverà piena attuazione solo negli anni 70, con la legge Petri e la riforma Visentini, che introdurrà l’Irpef con 32 scaglioni, con aliquota massima al 72%. D’altronde, sotto Eisenhower negli Stati Uniti i più ricchi erano tassati al 93%. Il nodo politico era che quelle collettività credevano fosse giusto e doveroso fissare un limite all’arricchimento individuale. Oggi abbiamo il problema opposto, ovvero viviamo in un mondo che non ha limiti, né l’ha la ricchezza che si può accumulare. E infatti abbiamo individui più ricchi di interi Stati; magari faranno beneficenza, ma la beneficenza è una concessione, non un diritto. È un ritorno all’Ottocento.

Ricchi che sembrano volersi separare sempre più dalla società.
FP La potenza mediatica e culturale dei più ricchi si impone su una popolazione che non trova più scudo nella politica strutturata. Oggi si dice: abbassiamo le tasse, senza distinguere tra i ricchi e il resto della società. Così, però, lo Stato perderebbe risorse con cui attuare i diritti di chi ha meno, mentre i ricchi si chiudono nei loro ghetti e comprano ciò di cui hanno bisogno. È una separazione anche fisica, che in Italia ha preso la forma della separazione delle Regioni più ricche. Ma il “residuo fiscale” è un concetto assurdo, dal momento che le Regioni non pagano le tasse, sono le persone che le pagano. Bisognerebbe distinguere e abbassare le tasse a chi ne paga troppe (i ceti indigenti e medi) e aumentarle a chi ne paga poche (i ceti ricchi e i ricchissimi). Aggiungo un punto importante: chi vince le elezioni ha il dovere di attuare tutti i diritti costituzionali. Può scegliere come farlo, ma deve farlo: è un vincolo giuridico. Ne consegue che non è possibile ridurre il prelievo fiscale al di sotto del minimo necessario per attuare tutti i diritti. È un discorso che di solito si elude, perché si dice che la legislazione di bilancio è rimessa alla discrezionalità politica. Ma discrezionalità non vuol dire assoluta libertà. Il che significa che, se si fa la flat tax e poi mancano i soldi per scuole e ospedali, si sta violando la Costituzione.

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