Esteri / Approfondimento
È tempo di decolonizzare la cooperazione. Il dibattito nel Regno Unito
Le modalità con cui operano alcune realtà impegnate all’estero ricalcano ancora modelli coloniali che implicano una superiorità da parte del Nord nei confronti del Sud del mondo. Cambiare il linguaggio e investire sul personale locale sono i primi passi per modificare l’approccio. Le proposte di tre Ong per cambiare
Superare la narrazione della cooperazione internazionale che descrive gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo esclusivamente come bisognosi di quell’aiuto che solo “gli occidentali” che vengono “dal Nord” possono portare. Sradicare i pregiudizi nel reclutamento del personale, evitando di ricorrere solo a personale bianco ed espatriato: tutte le posizioni, comprese quelle dirigenziali, possono essere ricoperte da personale locale. Investire nella ricerca locale, piuttosto che finanziare i viaggi di ricercatori provenienti da Stati Uniti ed Europa. Incoraggiare il dialogo con i beneficiari e le comunità locali per riflettere sugli squilibri di potere. Mettere fine alle campagne di raccolta fondi pietistiche che, facendo ricorso a immagini e a linguaggi, sminuiscono la dignità delle comunità locali. Infine, prendere consapevolezza del fatto che il razzismo strutturale esiste -anche all’interno del mondo della cooperazione- “e che non cancella quello che viene fatto di buono. Tuttavia, abbiamo la responsabilità collettiva di affrontare questo problema”.
A lanciare la sfida sono state tre Ong inglesi (Peace Direct, Adeso e Alliance for peacebuilding) che a giugno hanno pubblicato un report dal titolo quanto mai esplicito: “Time to decolonize aid“. Un documento che rappresenta il punto d’arrivo di un dibattito che si è acceso nel Regno Unito da più di un anno e che, a novembre 2020, ha coinvolto più di 150 persone impegnate impegnate nel mondo della cooperazione allo sviluppo, l’assistenza umanitaria e il peacebuilding in una lunga sessione di dibattiti. Tre giorni in cui si è parlato del “razzismo strutturale” all’interno del settore, delle norme e delle strutture discriminatorie presenti all’interno di molte Ong britanniche e internazionali, dell’uso del linguaggio (sia nella stesura dei progetti, sia nelle campagne di raccolta fondi) delle disuguaglianze di potere nei rapporti tra Nord e Sud del mondo.
Temi di cui si parla soprattutto nel mondo anglosassone, dove l’onda lunga del movimento “Black lives matters” e la crescente attenzione sui temi del razzismo, hanno portato diverse realtà a osservare più da vicino anche il funzionamento delle realtà della cooperazione per indagarne le dinamiche, i problemi e la presenza di forme di razzismo strutturale che penalizzano la componente “non bianca”. È il caso, ad esempio, del British overseas NGO for development(Bond), una rete di associazioni impegnate nella cooperazione internazionale fondata nel 1993 e che oggi conta circa 400 membri. A giugno, l’organizzazione ha pubblicato l’esito di un sondaggio dal titolo “Racism, power and truth: Experiences of people of colour in development” (“Razzismo, potere e verità: le esperienze di persone di colore nel settore dello sviluppo”) da cui emerge che il 48% degli intervistati afferma di aver subito in passato discriminazioni a causa della propria appartenenza etnica, razziale o religiosa mentre cercava lavoro nell’ambito della cooperazione internazionale.
“La maggioranza dei partecipanti al dibattito ha riconosciuto la necessità di decostruire l’attitudine coloniale e neo-coloniale che ancora è presente nel sistema della cooperazione internazionale”, spiega ad Altreconomia Dylan Mathews, direttore esecutivo di Peace Direct, Ong inglese impegnata in processi di peacebuilding in 12 Paesi tra cui Repubblica Democratica del Congo, Siria, Filippine, Sri Lanka, Pakistan e Mali. “Questo approccio, secondo cui ‘noi’ del ‘Nord’ abbiamo tutte le soluzioni, le ricette e le competenze per risolvere i problemi degli ‘altri’, affonda le radici in una mentalità coloniale e neo-coloniale”, aggiunge Mathews. Un approccio che si riflette, ad esempio, su molte campagne di comunicazione e fundraising “che mostrano i volti di persone di colore, raffigurate come indigenti e bisognose, mentre i bianchi sono i salvatori che risolvono il problema”, aggiunge il direttore di Peace Direct. L’analisi di “Time to decolonize aid” non si ferma al linguaggio della comunicazione verso l’esterno, ma prova ad accendere un faro anche sui termini utilizzati durante l’attività quotidiana, ad esempio nella stesura dei progetti, suggerendo di eliminare gradualmente termini come “beneficiari”, “capacity building”, “field expert” che insistono sulle lacune delle comunità locali.
“Personalmente, penso che il problema più rilevante e pervasivo con cui il mondo della cooperazione deve fare i conti sia il ‘culto’ delle competenze -aggiunge Dylan Mathews-. Le competenze tecniche vengono valutate di più e meglio rispetto a quelle legate al contesto locale. Penalizzando in questo modo le persone che vengono dalle comunità locali, che invece, da questo punto di vista, sono degli esperti”. Da qui la raccomandazione alle Ong di assumere staff locale anche per le posizioni apicali e dirigenziali -e non solo per il lavoro sul campo- all’interno degli uffici locali aperti nei vari Paesi del Sud del mondo in cui operano le Ong internazionali, diminuendo così il peso e il numero degli espatriati all’interno dei cosiddetti “uffici Paese”.
“Uno dei temi di cui si sta discutendo maggiormente in questi ultimi anni è la localizzazione delle Ong. C’è chi afferma di aver avviato un processo di localizzazione assumendo più staff locale, pensando che basti a rendere ‘locale’ un’organizzazione. Ma questo non basta -commenta Dylan Mathews-. Certo, le assunzioni in loco sono importanti, ma le realtà che agiscono hanno la sede centrale altrove, che decide le strategie e le politiche di intervento. In conclusione: l’assunzione di personale locale è un piccolo passo nella giusta direzione, ma da solo non è sufficiente”. La sfida, conclude Dylan Mathews, è quella di costruire nuove forme di cooperazione, che mettano al centro la solidarietà piuttosto che l’aiuto. Ma occorre anche fare in modo che l’attenzione su questi temi resti alta: “C’è il rischio che il tema della decolonizzazione diventi un tema ‘trendy’ e che passi di moda nel giro di poco tempo. Occorre invece approfondire il dibattito su questi temi per fare in modo non solo che restino in agenda, ma anche per evitare l’inazione”.
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