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Decarbonizzazione: il gas è parte del problema, non della soluzione

© Martin Adams - unsplash.com

In arrivo in Italia 15 centrali a gas fossile: un azzardo economico e una scelta contraria agli obiettivi climatici. Perché salvare il gas a tutti i costi è un rischio

Tratto da Altreconomia 237 — Maggio 2021

Nei prossimi dieci anni in Italia potrebbero essere realizzate almeno 15 nuove centrali a gas a ciclo combinato per una potenza installata di circa 14 GigaWatt. Un azzardo che potrebbe costare agli investitori 11 miliardi di euro di “attivi non recuperabili” e portare fuori strada il nostro Paese rispetto agli imminenti obiettivi di decarbonizzazione. Gli specialisti finanziari del think tank indipendente “Carbon Trackerhanno fatto i conti nel marzo 2021 in un report dal titolo emblematico: “Il rischio di andare a tutto gas. Perché l’Italia dovrebbe investire nel settore dell’energia pulita”. Al posto di smantellare il carbone e sostituirlo con un altro combustibile fossile come il gas, all’Italia, a parità di servizi garantiti dalla rete, converrebbe infatti puntare tutto e subito sulle energie rinnovabili.

Già oggi un “portafoglio verde” batte il gas e nel 2030 la distanza sarà ancora più ampia, con il costo livellato dell’energia del primo previsto a 47 euro/MWh contro i 75 degli impianti termoelettrici a ciclo combinato (più 37%). Ma non c’è “solo” una ragione economica. “Scegliendo energia pulita rispetto a quella ottenibile con le centrali a gas -spiegano gli autori del report-, le riduzioni annuali delle emissioni saranno pari a 18 milioni di tonnellate di CO2, equivalenti al 6% delle emissioni totali nel 2019”. Il tempo è pochissimo e gli impegni “climatici” straordinari: al 2030, tra meno di dieci anni, il Green deal europeo prevede infatti una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra pari almeno al 55% rispetto ai livelli del 1990. Nel 2050 ci siamo impegnati a raggiungere il traguardo delle emissioni nette zero.

Per Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr e membro dell’Accademia nazionale delle scienze, si tratta di una “epocale ristrutturazione tecnologica che cambierà il modo di produrre, distribuire e vendere energia”. Non può essere indolore e deve essere presa sul serio. “Decarbonizzare il sistema -spiega Armaroli ad Altreconomia– significa lasciare dove sono gli idrocarburi che conosciamo e concentrarci sulle soluzioni che già abbiamo. Su tutte, elettrificazione ed efficientamento. Oggi nel mondo oltre l’80% della nuova capacità elettrica installata è da fotovoltaico ed eolico (dati IRENA 2021, si veda in proposito il grafico più avanti, ndr). È inevitabile che le aziende che operano nel campo dei combustibili fossili nel giro dei prossimi anni debbano pianificare in fretta la loro exit strategy. Il timore che hanno i grandi operatori del gas deriva dal fatto che questo combustibile è ormai il prossimo candidato a cadere dalla torre”. Il carbone è spacciato, il petrolio -assorbito per il 70% dai trasporti- è seriamente minacciato dall’elettrico.

“Il gas è sempre stato tenuto come riserva indiana ma ora pende -fa segno con il braccio Armaroli-, anche perché il suo peccato originale sta emergendo. Mi riferisco alle perdite, sinora sostanzialmente ignorate, registrate lungo le reti. Considerando che è composto per l’85-99% di metano (CH4), 28 volte più ‘potente’ del biossido di carbonio (CO2), si comprende come sia parte del problema e non certo della soluzione”. Nel 2020, le concentrazioni di metano e anidride carbonica in atmosfera hanno raggiunto peraltro livelli record. A inizio aprile di quest’anno l’agenzia federale americana NOAA (National oceanic and atmospheric administration) ha dato conto di un incremento di 14,7 parti per miliardo del primo lo scorso anno e del raggiungimento di quota 412,5 parti per milione della seconda (più 12% rispetto al 2000). Il presidente della Banca europea per gli investimenti, Werner Hoyer, ha ammesso a gennaio che “se non metteremo fine all’uso dei combustibili fossili non saremo in grado di raggiungere gli obiettivi climatici”. Transizione vuol dire “basta carbonio, non solo basta carbone”, per dirla con le parole di Gianluca Ruggieri, ricercatore all’Università dell’Insubria e co-fondatore della cooperativa energetica ènostra. “Occorre cambiare paradigma, abbandonare la logica della combustione e aumentare in fretta la produzione elettrica rinnovabile -aggiunge Armaroli- perché questa parentesi che stiamo vivendo non è replicabile. Abbiamo attinto a forme di addomesticamento uniche come il petrolio, che ora dobbiamo abbandonare”.

14,7 parti per miliardo, l’aumento della concentrazione di metano in atmosfera nel 2020 secondo l’agenzia federale americana NOAA

Il passo dell’Italia però è lento. Secondo Matteo Leonardi, co-fondatore insieme a Luca Bergamaschi di ECCO, il primo think tank indipendente su energia e clima supportato esclusivamente da risorse filantropiche, c’è chi rema contro. “Il nostro Paese ha tendenzialmente sempre avuto un ruolo neutro, a tratti progressista o comunque non ostativo rispetto ai negoziati internazionali sul clima. Il motivo è che fino a poco tempo fa la politica climatica era coincidente con politica energetica italiana: quella cioè di sviluppare le rinnovabili, essere efficienti e sostituire i primi combustibili fossili con il gas. Dal 2021 si è entrati nella ‘seconda fase’ della decarbonizzazione, quella cioè che intacca il ruolo di tutti i fossili, incluso e in particolare il gas, e che richiede la conversione dei settori industriali. Senza una policy per l’uscita dal gas, l’Italia rischia di diventare un ostacolo alle politiche climatiche”. Leonardi cita due dati nazionali: i 15mila MW di nuove centrali a gas in attesa di autorizzazione e, di contro, i “soli” 750 MW di nuova potenza rinnovabile installata nel 2020. È la transizione alla rovescia. “Non nego che ci possa essere la necessità di qualche ‘peaker plant’, ovvero impianti che entrano in funzione solo quando c’è una domanda elevata -chiarisce Armaroli-. Ma realizzare una centrale a gas che funzionerà almeno 30 o 40 anni vuol dire vincolarsi, oggi e domani, a una tecnologia che dobbiamo apprestarci a smantellare. È una scelta politica non indifferente, sciagurata. Il vero obiettivo in realtà è stoccare l’energia tramite batterie, non c’è altra strada, e l’industria italiana dovrebbe puntare sull’accumulo”.

Ad affaticare la corsa rinnovabile dell’Italia, tra i Paesi più metanizzati al mondo, ci sono gli interessi (legittimi) dei due colossi legati a doppio filo al gas: il “campione” degli idrocarburi Eni -sotto il controllo del ministero dell’Economia e con l’azionista pubblico che detiene il 30,334% delle azioni- e il gigante dei metanodotti Snam -con CDP Reti, del gruppo pubblico di Cassa depositi e prestiti, al 31,352%-. Michele Governatori, energy programme lead di ECCO e con un passato in Eni, ha collaborato al report di “Carbon Tracker” sugli investimenti nelle nuove centrali a ciclo combinato. “Un film già visto -dice-. La retorica del gas dura infatti da oltre vent’anni. Nonostante il picco del suo consumo lordo in Italia sia stato raggiunto nel lontano 2005 (si veda questa tabella) e da lì in avanti si sia verificata una sostanziale stagnazione dei consumi energetici e una diminuzione di quelli del gas, le infrastrutture legate a questo combustibile non hanno smesso di crescere, garantite da una remunerazione del capitale del 6,5-7% in tariffa, a carico di tutti i cittadini. “Più l’area regolata di remunerazione si espande -sintetizza Governatori- e più gli operatori del settore guadagnano”. È un tratto di quel “mercato della capacità” italiano messo sotto la lente dagli analisti di “Carbon Tracker”: “Il ‘capacity market’ è il meccanismo di approvvigionamento dell’energia elettrica mediante contratti a termine aggiudicati da aste competitive. Questo -si legge nel report- falsa il mercato dell’energia a favore di centrali a gas preesistenti e nuove, e svantaggia le rinnovabili, a costo basso e zero emissioni”. Un mercato da cambiare.

A leggere le 100 pagine della “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra” inviata dal precedente esecutivo alla Commissione europea l’11 febbraio 2021 e sottoscritta da quattro ministeri (Ambiente, Sviluppo economico, Infrastrutture e Politiche agricole), il nostro Paese sembrerebbe aver compreso la lezione. Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, elenca gli aspetti salienti di queste “promesse da mantenere”: “Drastica riduzione dei combustibili fossili, consistente riduzione della domanda di energia, forte elettrificazione nei trasporti e nel riscaldamento degli edifici, aumento impressionante della produzione di energia rinnovabile, vistoso ridimensionamento nell’uso del gas naturale”. Colpisce un passaggio delle “Considerazioni e conclusioni” della Strategia governativa: “È tuttavia auspicabile un cambio di atteggiamento da parte dei diversi livelli istituzionali, dei cittadini e delle imprese -si legge-, in quanto troppo spesso il percorso verso la decarbonizzazione, già solo in vista degli obiettivi 2020, incontra molte resistenze”.

Paradigmatico è il caso del riscaldamento domestico, come spiega Davide Sabbadin, policy officer in tema di clima ed economia circolare presso l’European environmental bureau. “La grandissima parte del consumo energetico da gas fossile è rappresentata dalla sfera domestica. L’80% del consumo termico va per riscaldare le case. Ciò significa che incidere su quel mercato, mettendo in discussione la dipendenza dalla rete gas esistente e centralizzata, equivale a colpire il gas fossile. Per chi vende gas è necessario che ciò non avvenga. Ed è in questa cornice che va letta la ‘pubblicità’ sempre più spinta del cosiddetto blending, ovvero la miscelazione di gas (80-90%) e idrogeno (10-20%). Una strategia portata avanti nei tavoli di negoziazione europea da Paesi come l’Italia e la Germania, fortemente interessati a salvaguardare la filiera delle caldaie fossili”.

Per Sabbadin non altro è che il modo per mantenere in vita la rete e lasciar intatto il monopolio naturale. È una “scelta energetica conservativa e sbagliata”, la bolla Governatori, il quale ricorda invece l’urgenza di intervenire per la decarbonizzazione dei sistemi di riscaldamento degli edifici. “Penso alla Pianura Padana, duramente colpita da emissioni da traffico e riscaldamento in termini di morti premature ogni anno. Tutte le ristrutturazioni già oggi dovrebbero eliminare la caldaiette a gas o le caldaie centralizzate”. Non è utopia. Da inizio 2021 in 40 municipalità della California -e poi New York, Seattle, Vancouver-, come ricordano Caserini e Armaroli, è vietato costruire case scaldate a metano. “Dal 2040 la città di Amsterdam vuole proibire anche alle case esistenti di utilizzare il gas”, aggiunge Ruggieri. In Italia, invece, l’argomento è rimosso. “Le persone hanno accettato l’idea del cappotto termico -riflette Caserini- ma ancora non ci credono che dovranno mettere mano al sistema di riscaldamento, installando ad esempio una pompa di calore elettrica”. Su scala domestica o nella mobilità leggera, commenta Armaroli, l’idrogeno è solo un modo per tenere le persone attaccate alla “canna del gas”, bloccando così la transizione degli “usi finali” e rimandando la decarbonizzazione. Concorda sul punto anche Sabbadin: “Si tratta di una tecnologia utile alla decarbonizzazione di specifici settori industriali ‘pesanti’ senza alternative al carbone, come la filiera dell’acciaio, del cemento o della chimica, dove occorrono temperature altissime. Sul resto l’elettrico ha già vinto, sia in termini di rete sia in termini di efficienza”.

Snam ed Eni raccontano però una storia diversa. La prima sostiene che il 70% dei tubi dei suoi metanodotti sia “compatibile con l’idrogeno” e vorrebbe “sfruttare l’esistente rete di trasporto del gas naturale e quindi evitare i costi associati alla costruzione di un’infrastruttura dedicata per il trasporto di idrogeno nella fase iniziale di sviluppo del mercato”. La seconda punta (mediaticamente) sul cosiddetto “idrogeno blu”, estratto dal metano con il successivo sequestro e stoccaggio nel sottosuolo della CO2 derivante dal processo (Carbon capture and storage, CCS). “Nell’ambito della tecnologia CCS miriamo a creare nella acque a largo di Ravenna uno dei più grandi centri per lo stoccaggio della CO2 -l’annuncio della multinazionale- utilizzando giacimenti di gas naturale ormai esausti che possono essere riconvertiti velocemente e in sicurezza, con un potenziale tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate”. Un progetto che nei propositi di Eni andrebbe sostenuto anche tramite il Fondo europeo per l’innovazione. Armaroli è diretto: “L’idrogeno blu è il nostro nuovo ‘carbone pulito’, un fallimento, e i costi energetici per spingere la CO2 sotto terra sono altissimi, al di là degli approfondimenti necessari sotto il profilo del rischio sismico. L’unica opzione per considerare in generale l’idrogeno è quella ‘verde’, tratta da elettricità rinnovabile e acqua, senza produzione di CO2, ma è necessario un surplus enorme di produzione rinnovabile e la tecnologia non sarà pronta prima del 2030”.

Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica

Si torna al punto di partenza: le rinnovabili. Nella “Strategia italiana di lungo termine” la strada è segnata, in altri documenti molto meno. Ne è la prova una delle prime bozze di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) legato ai fondi del Next Generation Eu. Nel capitolo dedicato alla produzione di energia da fonti rinnovabili si leggeva infatti che “gli obiettivi fissati al 2026 sono rappresentati da un aumento di 4,5-5 GW della capacità di rinnovabili installata”. Dovremmo moltiplicare quella soglia per cinque, sottolinea Armaroli, considerando che tra il 2004 e il 2018, la potenza efficiente lorda degli impianti alimentati da rinnovabili installata in Italia è aumentata da 20 a 55 GW, con un tasso di crescita medio annuo pari al 7%, anche se con un aumento fortissimo e mai più replicato tra il 2010 e il 2012 (da 30,2 a 47,6 GW circa).

La partita della decarbonizzazione non si gioca “solo” in Italia. A livello europeo ad esempio è in discussione l’inclusione del gas fossile tra le fonti “green” per la cosiddetta “tassonomia degli investimenti sostenibili” finalizzata a incanalare i flussi finanziari verso attività coerenti con gli obiettivi climatici. Una truffa delle etichette che ha spinto a inizio 2021 decine di accademici e organizzazioni della società civile europea a scrivere un’allarmata lettera aperta ai vertici della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. “La tassonomia europea è stata concepita per rispondere a criteri fondati su evidenze scientifiche e proprio per evitare greenwashing”, spiega ad Altreconomia Giovanna Michelon, docente di Economia aziendale presso la School of Accounting and Finance dell’Università di Bristol. C’è anche la sua firma in calce alla lettera, avendo preso parte al network di esperti che ha seguito nel tempo la “tassonomia”. “Considerare sostenibile e in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione il metano vuol dire trovare una scappatoia -sintetizza Michelon- e trasferire in capo alle generazioni future problemi che diventeranno sempre più grandi e imprevedibili. I cambiamenti radicali che dobbiamo compiere dovrebbero essere fatti oggi e non posticipati”.


Il dilemma della Sardegna

“Un dubbio amletico, su cui si arrovellano da anni le istituzioni e le comunità locali: la Sardegna va metanizzata oppure elettrificata?”. Inizia così il capitolo dedicato al futuro energetico dell’isola curato dall’associazione ReCommon nel più ampio dossier “L’ingiusta transizione. Come Snam sta svendendo il nostro futuro” pubblicato il 21 aprile. “Per la Regione d’Italia più povera di infrastrutture energetiche e l’unica completamente tagliata fuori dal processo di metanizzazione è arrivato il momento delle scelte -spiega Elena Gerebizza di ReCommon-. Meglio usare una ricetta vecchia e ‘fossile’ oppure puntare su un percorso virtuoso fatto di investimenti sulle rinnovabili e una vera decarbonizzazione?”. Uno studio commissionato dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera) alla società di consulenza RSE ha valutato costi e benefici dell’operazione e concluso che “l’elettrificazione resta comunque la strada più coerente con le politiche di decarbonizzazione sull’orizzonte di lungo termine dal 2050”. Un riscontro che secondo ReCommon “non combacia con il credo di Snam”. Archiviata (forse) la “mitologica Dorsale” estesa circa 400 chilometri e dal costo previsto di 440 milioni di euro, il colosso del gas prevede investimenti per “la realizzazione della pipeline virtuale in Sardegna e dei primi tratti di rete” puntando su rigassificatori e depositi costieri od offshore.

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