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Ambiente / Opinioni

La transizione ecologica ha futuro se è radicale, non prigioniera del compromesso

Londra, una manifestazione di Extinction Rebellion © Ehimetalor Akhere Unuabona - Unsplash

Il ministero della Transizione ecologica è sulla bocca di tutti. La premessa è buona ma non possiamo commettere gli errori e i ribassi del passato. Lasciamo perdere inediti esperti di ambiente, concentriamoci sul rispetto della natura e sulla riduzione dei divari. E scegliamo le persone giuste. Il commento del prof. Paolo Pileri

In queste ore è un gran parlare di un nuovo ministero che si prospetta come una grande novità del nascente governo Draghi: il ministero della Transizione ecologica. Il titolo confesso che mi piace perché è in sé qualcosa che è in movimento, come a dire che, finalmente, muoviamo dei passi sbloccandoci dalle secche in cui siamo rimasti per decenni e andiamo verso una direzione che ha come destinazione l’ecologia. Bellissimo. La premessa è buona. In Europa i nostri cugini francesi hanno fatto così anche loro. Dopodiché vedremo come faranno e come finirà questa avventura: è da lì che potremo dire se questa è una buona strategia.

Torniamo però sulla premessa e proviamo a dire alcune cose che potrebbero tornare utili a noi, cittadini sovrani (perché la politica è un servizio, non dimentichiamolo), e a loro, ufficiali pubblici, tecnici e politici, incaricati di tradurre in pratica le urgenze “ecologiche”. Da questo punto di vista non riesco a fare a meno di frenare la mia immaginazione e pensare che sarebbe davvero un cambiamento epocale se questo ministero prendesse il posto del ministero dello Sviluppo economico. Sì perché è lo sviluppo economico che deve curvarsi sulle istanze ecologiche e non l’ambiente che è già, di natura, conformato alle sfide ambientali. Il nostro problema, da decenni, è proprio il fatto che nella compagine di governo il ministero dell’Ambiente vale come il due di picche di solito e le decisioni di investimento, di grandi opere, di modello di sviluppo e così via, sono prese di fatto bypassando il ministro dell’Ambiente o mettendolo in una condizione di supina accettazione.

Quindi la prima cosa da dirci e da dire è che la sfida della transizione va indirizzata sul bersaglio giusto e non è una cosa che riguarda solo i parchi, le riserve, i rifiuti, eccetera. È l’economia che deve cambiare. È il consumismo come norma sociale, ciò che devono estirpare. Poi prenderemo quel che arriva, come siamo abituati noi che spingiamo per la difesa dell’ambiente. Sicuramente molte cose bollono in pentola negli ultimi mesi e il Green New Deal europeo da un lato, i vincoli di bilancio di Next Generation Eu (il 37% del piano di ripresa e resilienza deve andare all’ecologia), l’introduzione di parole magiche come “resilienza” e, appunto, “transizione” hanno agitato le acque e fatto fare balzi in avanti alla questione ecologica. Ma non possiamo permetterci fuochi di paglia. Abbiamo bisogno di cambiamenti seri e duraturi e per questi abbiamo bisogno non solo di esperti ma anche di persone appassionate e indipendenti.

Il governo faccia attenzione quindi, perché dalle tane più remote stanno venendo fuori inediti esperti di ambiente ed ecologia che si dichiarano green da sempre ma che green lo sono stati sull’unghia del mignolo sinistro e quando c’era da difendere il suolo o un parco o da lottare per evitare l’ennesima discarica nel posto più sbagliato o da rifiutare un incarico per un piano urbanistico assurdo o se c’era da smentire la prosopopea di una legge ambientale che di ecologico aveva poco o nulla, se ne guardavano bene e si defilavano con eleganza aristocratica. Speriamo che la compagine Draghi scelga bene.

In Italia abbiamo davvero tanti esperti sul clima, sull’agroecologia, sulla mobilità sostenibile (che non è solo l’auto elettrica a guida assistita come piace al mondo ipertecnologico degli industriali), sulla biodiversità, sul paesaggio, sulle acque interne e costiere, sul suolo, sui rifiuti, sull’ecologia forestale, su cibo e diete alimentari, sul consumo di suolo, su pianificazione urbanistico-ambientale, su economia dell’ambiente e fondamentale, e così via. La cosa dirimente sarà pescare persone autorevoli e, soprattutto, indipendenti. Quest’ultima parolina è la più importante.

Se il ministero vorrà essere una novità, dovrà guadagnarsi uno spazio che non può essere di compromesso, ma radicale. Radicale per come viene proposta, ad esempio, nell’enciclica “Laudato sì” o in tanti articoli scientifici indipendenti che da anni supplicano i governi a fermarsi e fare altro e non a cincischiare dietro inutili e ritardanti compromessi che non fanno che dare sempre più spazio ai disastri ambientali. Abbiamo perso troppo tempo nel passato, cercando prima i compromessi e poi lo spazio per le ragioni ecologiche. Ora il metodo deve invertirsi e servono politici convinti e con comprovata militanza ecologica e scientifica (entrambe). E sarà doloroso all’inizio. E capiterà che coloro che vogliono economie sfavillanti e rendite da capogiro, davanti al cambio di rotta -la transizione- accuseranno l’ambiente e allora avremo bisogno di valide persone, come Alex Langer per intenderci, che saranno capaci di riportare le responsabilità dove devo stare ovvero sugli eccessi che ci siamo permessi con i nostri stili di vita e con il nostro modello di sviluppo.

Chiunque sarà il ministro della transizione ecologica dovrà innanzitutto spiegare che con la tutela ambientale noi possiamo generare centinaia di migliaia di posti di lavoro green e dignitosi. Dovrà convincere i cittadini e le imprese che la manutenzione del territorio è la nostra prima e più importante opera pubblica, che il Piano di ripresa e resilienza si è dimenticato. Dovrà spiegare che non esistono solo le nove grandi città italiane sulle quali investire, ma anzi che bisognerà capovolgere l’agenda delle priorità e partire dagli ultimi: i piccoli Comuni, le aree interne, le fragilità territoriali. Dovrà convincere gli affamati e sedicenti esperti di marketing della qualunque cosa che non ci si può gettare su qualunque piatto allo stesso modo e che la “promocommercializzazione” del territorio che ha massacrato i nostri paesaggi nel passato lasciandoci in eredità un sacco di bruttezza, dismissione, danni, debiti e intere coste abbruttite e cementificate da strade, piattaforme logistiche e commerciali non è la ricetta del futuro. La musica deve cambiare. La virtù deve prevalere sulla sciatteria. Il progetto sulla promozione. La visione sulla fretta di fare. L’incubo dell’incasso deve venire dopo la generazione di sana occupazione. La natura deve comandare e non subire perché non c’è un solo oggetto tra tutti quelli che usiamo ogni giorno che non arrivi dalla natura: tutta la nostra economia dipende dalla natura ma noi fingiamo da decenni di non saperlo e la calpestiamo facendo il contrario.

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha ammesso che la pandemia è l’esito di un degrado ecologico perpetrato dall’uomo. Ci basta questo a capire che dobbiamo cambiare?
Ancora un’osservazione.La parola transizione per me è una parola “statuto”, è la sintesi di un impegno politico e culturale a cambiare registro, come abbiamo detto. E tra questi cambi di registro ve ne sono due che vanno in particolare messi in agenda. Il primo è che la natura ha dei diritti ma non sono sanciti a dovere nelle nostre leggi le quali sono, al contrario, fatte per dare a noi, umani guastatori, il diritto a spadroneggiare sulle risorse naturali come vogliamo. Alla peggio ci chiedono qualche compensazione o qualche alberello in città. Dobbiamo smetterla di essere colonizzatori. Dobbiamo toglierci dalla testa che la tecnologia risolverà l’insostenibilità, perché non è così.

Tra le prime cose da fare c’è da riconoscere che la natura ha dei diritti e questi vanno sanciti dalle nostre leggi in modo categorico, perché le società sono abituate a rispondere alle leggi e a quelle le imprese e i cittadini guardano. Il secondo lo vado dicendo da tempo. Le prossime politiche ambientali non possiamo pensarle come politiche che si “affiancano” a quelle non ambientali. Sarebbe una tragedia nei fatti e culturale. La questione ambientale rimarrebbe fanalino di coda al di là dei cambi di nome ai ministeri. Le politiche ecologiche dovranno essere sostitutive, allora sì che la musica cambierà. Un esempio? Impensabile immaginare che le questioni ambientali debbano essere disegnate attorno a perimetri amministrativi che per definizione non possono gestirle. Aria, acqua biodiversità, uso del suolo, clima sono questioni che è sbagliato assegnare in via esclusiva a Comuni e Regioni. Non ha senso. Occorre che si cambi. Altrimenti lo sforzo di un Comune viene annullato dall’imperizia dei suoi vicini e non portiamo a casa risultati. Questo è un maledetto vizio italiano da sanare: la transizione ecologica si ottiene anche con una transizione amministrativa, dobbiamo affrontare questa sfida. Smettiamola di dire urbanizzazione a “basso consumo di suolo” che vuol dire solo che si può ancora consumare, ma un po’ meno di prima. Dobbiamo dire urbanizzazione senza alcun consumo di suolo, dove la parola suolo corrisponde al vero non alle definizioni di plastica compromissorie di cui è piena la legislazione urbanistica quando definisce cosa è il suolo e il consumo di suolo. La mobilità sostenibile non si fa aggiungendo le biciclette e il trasporto pubblico e lasciando piena libertà alle auto di entrare, uscire, sostare dappertutto nelle città. La mobilità sostenibile si fa aggiungendo biciclette, aggiungendo trasporto pubblico e togliendo spazio alle auto e a tutto ciò che è mobilità insostenibile. E, ricordiamoci, che l’Alta velocità è massacrante per l’ambiente e non risolve nessun problema di pendolarismo che è un vero problema socio-ambientale che deve trovare attenzione ben prima di ogni alta velocità e di ogni tangenziale inutile.

La transizione ecologica non si fa dando soldi al peggior turismo e, assieme, anche a quello sostenibile tra cui il turismo lento. Si fa scegliendo solo la sostenibilità e la lentezza e sgonfiando i turismi di massa, così impattanti. Le transizioni sono belle ma danno frutto se la loro priorità non è il compromesso. Davanti a un bivio si dovrà scegliere la nuova strada e abbandonare la vecchia. Sarà doloroso ma è questa la sfida, culturale innanzitutto. A questo proposito, ministero e governo non si dimentichino di investire tanti soldi in formazione e ricerca ecologica in tutti i settori. Senza il combustibile della cultura, ogni transizione rimarrà a secco dopo pochi chilometri e tornerà sulla vecchia strada. Possiamo farcela. Dobbiamo farcela. Sarà bello farcela e i cittadini hanno capito che il futuro è solo all’insegna del pieno rispetto della natura e della riduzione dei divari.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro per Altreconomia è “100 parole per salvare il suolo”

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