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Debito, riforme e ripresa hanno un solo “garante”. E non è il Parlamento
Camera e Senato sono rimaste ai margini rispetto al Piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Draghi, scritto da pochissime mani. Anche l’approvazione del Def appare un rito inutile. Le larghissime e gracili intese, intanto, si profilano fino al 2026. L’analisi di Alessandro Volpi
I contenuti del Piano di ripresa e resilienza, nell’ultima versione consegnata alle Camere, presentano i caratteri del programma di mandato fino alla sua scadenza nel 2026; tale piano prevede impegni e passaggi attuativi che, di fatto, ammettono ben pochi spazi di modifica.
Dunque, l’attuale maggioranza di “unità nazionale” che sostiene il governo Draghi, artefice del Piano, dovrà continuare fino a quella data, ben oltre la scadenza della legislatura nel 2023? Certo, in caso di un cambiamento di maggioranza, gli impegni dovrebbero essere ugualmente rispettati e, quindi, si creerebbe il paradosso politico di una nuova coalizione “obbligata” a seguire in maniera pedissequa la linea tracciata da Draghi. In quest’ottica, un particolare rilievo acquista la quarantina di pagine del Piano dedicate alle riforme. In esse sono previsti almeno 26 interventi normativi cruciali, dal decreto semplificazioni, a quello sugli appalti pubblici, alla legge sulla concorrenza, fino alla legge delega sulla riforma fiscale. Alcuni aspetti di tali ipotesi sono da tempo oggetto di riflessione pubblica, ma la loro formulazione compiuta è frutto della repentina decisione del perimetro ristretto di figure costruito da Draghi.
In materia di pubblica amministrazione, per esempio, è evidente la volontà di realizzare strutture, temporanee e selezionate in modo informale, di sostegno agli apparati esistenti; una sorta di messa sotto tutela a cui si associa un importante alleggerimento dei meccanismi di affidamento e di gara. Diversi sono poi gli elementi di ispirazione tecnocratica che sono fioriti nell’ambito di una dimensione tipica di una realtà presidenziale, piuttosto che parlamentare. Il vero paradosso nel paradosso tuttavia deriva dal fatto che le riserve espresse dalla Commissione europea sul Piano sembrano essere concentrate sui pochissimi riferimenti in materia fiscale contenuti nel documento italiano, che prevede l’assegno unico universale, già finanziato per cinque miliardi di euro, e gli auspici di una riforma dell’Irpef e degli ammortizzatori sociali.
In altre parole, le riforme inserite nel Piano sono scritte dalla cabina ristretta dei “draghiani” -gli stessi a cui il premier intende far gestire le risorse- e sono state contestate dalla Commissione nella parte dove sono più necessarie e, appunto paradossalmente, più generali. La “trattativa” si è sbloccata solo dopo la telefonata di Mario Draghi ad Ursula von der Leyen, con cui il premier italiano si sarebbe definito nei termini del garante del rispetto di una generale opera di riforma che non costi troppo e favorisca le “dinamiche” del mercato. In altre parole, il Piano di ripresa e resilienza, con le riforme in esso contenute, crea una condizione sostanzialmente bloccata dove Mario Draghi e il governo di “unità nazionale” sono imprescindibili. Ma la domanda è se esista davvero questa “unità nazionale” e l’impressione più naturale è che, in realtà, sia una colossale forzatura.
Allora, per effetto della necessità di disporre dei fondi europei, stanno producendosi l’azzeramento del dibattito politico e una costretta convivenza che non possono non avere effetti sulla qualità della democrazia italiana. Le riforme, gli investimenti, la natura della spesa pubblica sono generati da un Piano scritto da pochissime mani e sono approvati da una maggioranza senza altro denominatore comune che non sia il nome di Draghi; siamo in una fase decisamente postpolitica.
A conferma di ciò, il Parlamento pare confinato a celebrare solo riti inutili. Entro il 30 aprile di ogni anno, dal 1988, con successive modifiche normative nel 2009 e nel 2011, deve essere proposto dal governo e approvato dal parlamento il Def (Documento economico e finanziario). Ma a che cosa serve un simile strumento che, peraltro, dovrebbe costituire l’asse portante della programmazione economica del Paese? Per rispondere alla domanda è bene ricordare che il Def si compone di tre parti: la prima deve recepire gli aggiornamenti del Programma di stabilità, il documento programmatico in materia di finanza pubblica che i singoli Stati membri della Ue devono sottoporre annualmente alle autorità europee in base alle regole del Patto di stabilità. Anche la terza parte recepisce il contenuto di un altro documento programmatico previsto dalle regole europee, il Programma nazionale di riforme, con cui ciascuno Stato membro delinea le riforme economiche necessarie al raggiungimento degli obiettivi della strategia di Lisbona. La seconda parte contiene invece i dati relativi agli andamenti macroeconomici e di finanza pubblica nel periodo di riferimento del documento, con la conseguente formulazione di previsioni per l’immediato futuro, che possono essere riviste a settembre.
In estrema sintesi due terzi del principale strumento di programmazione economica dovrebbero adeguare la politica italiana a vincoli e strategie europee ormai dichiarate superate, o quantomeno sospese, dalla stessa Europa e il rimanente terzo dovrebbe provare a fare previsioni, ad oggi, viste le condizioni di massima incertezza, praticamente impossibili e peraltro rivelatesi quasi sempre sbagliate anche negli anni passati. L’aspetto ancora più risibile è costituito però dal fatto che tutto il Documento non ha un legame reale con il “Recovery” e non riesce a quantificare quale sarà veramente alla fine dell’anno l’intero extra deficit.
Ma, in fondo, tutta la questione è ormai legata proprio al tema del collocamento del debito. Nel 2020 il Tesoro italiano ha emesso titoli del debito pubblico per 551 miliardi di euro, la cifra più alta di sempre. Nel 2021 questo record sarà rapidamente battuto perché ne verranno emessi per almeno 597 miliardi, più del doppio dell’intero Piano di ripresa e resilienza. In due anni verrà creato così debito per ben oltre 1.000 miliardi, senza contare appunto ulteriori extradeficit. Mario Draghi, secondo una parte rilevante dei partiti e della stampa italiana, viene ritenuto, come accennato, il solo garante del Piano di ripresa e resilienza, delle riforme e, soprattutto, dell’esplosione del debito. Davvero un po’ troppo per una democrazia.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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