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Cultura e scienza / Opinioni

Dante, la “razza italiana” e il fanatismo fascista

Un affresco di Luca Signorelli che ritrae Dante (1499-1502). L’opera si trova nella cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto © wikipedia.org/wiki

Fu il regime a fare del sommo poeta un simbolo. La nostra Costituzione, invece, ha posto cultura e patrimonio artistico al centro dell’idea di nazione. La rubrica di Tomaso Montanari

Tratto da Altreconomia 256 — Febbraio 2023

“So di dire una cosa molto forte, ma penso che il fondatore del pensiero di destra italiano sia Dante Alighieri”. E ancora: “Quella visione dell’umano della persona la troviamo in Dante, ma anche la sua costruzione politica credo siano profondamente di destra”. Le parole del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, hanno radici e implicazioni che impediscono di liquidarle come una monumentale fesseria (ciò che pure sono). Il ragionamento implicito è che avendo Dante fondato la lingua della nazione, la sua stessa figura è consustanziale alla retorica nazionalista della destra.

Per arrivare al traguardo dell’unità politica dell’Italia, le generazioni del Risorgimento inventano una “nazione come comunità naturale, fatta di legami parentali e di patrimonio territoriale, un retaggio che le appartiene da tempi immemorabili”, ha scritto lo storico Alberto M. Banti. Una nazione per sangue e stirpe: etnica, insomma. Quella descritta dall’inno di Mameli: intrisa di una retorica quasi razziale e di una terribile mistica della morte. Un’idea di nazione che giunge al culmine distorsivo con il fascismo. Per Mussolini, “l’Italia è una razza, una storia un orgoglio” e nel Manifesto della razza (1938) non ci sono dubbi: “Esiste ormai una pura razza italiana”. Già nel 1921 Mussolini aveva promesso: “Noi fascisti faremo in modo che tutti gli italiani abbiano l’orgoglio di appartenere alla razza che ha dato Dante Alighieri”.

È il momento più cupo, quello in cui si teorizza un’arte che “sarebbe nazione senza neanche prender coscienza storica di essa”, secondo una visione “cupamente naturalistica, dell’imperio del sangue, dell’ineluttabilità dell’arte di stirpe […] dell’arte sapor di terra […] dal buio del temperamento, sul fondo di chi sa quali predisposizioni ereditate”. Così la criticava coraggiosamente lo storico dell’arte Roberto Longhi nel 1941.

In un terribile scritto inneggiante a Hitler e l’arte, pubblicato nel 1942 in un volume dal titolo “In Italia l’arte ha da essere italiana?”, il già direttore del Corriere della Sera Ugo Ojetti lodava il “colpo di barra” imposto dal dittatore tedesco alla sua nazione, troppo proclive a un pernicioso internazionalismo, colpevole di aver vissuto un tempo in cui “in tutte le scuole d’arte si cantava: Des deutschen Künstlers Vaterland ist Griechenland, ist Griechenland (Dell’arte tedesca la patria è la Grecia, è la Grecia)”.

Per Ojetti, finalmente Hitler riconduce l’arte nella dimensione puramente nazionale, mettendo un freno a una situazione in cui (orrore!) “salvo la visibile discendenza di taluni da Cézanne o da Gauguin o da Matisse, il mutevole ingegno o la faticosa bizzarria nascondevano origine, patria, scuola, metodo. Ciascuno di costoro [di questi artisti] poteva essere francese o armeno, polacco o spagnolo, indifferentemente; peggio, poteva diventarlo”. Era in questo contesto che Dante diventava il simbolo della nazione italiana e dunque del fascismo che di quella nazione si era appropriato.

Ed è proprio per reagire a questa eclissi di storia, che, dopo la Liberazione, la Costituzione definisce la nazione (nell’articolo 9, unico dei principi fondamentali in cui la nomini) per via non di sangue, etnia, fede o linguaggio. Ma solo per via di cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico e artistico: cioè per via di inclusione, evoluzione continua, contraddizione, pluralità. La storia italiana, con la sua feconda e vitale varietà, tornava a prendere il posto dell’immobile “razza italiana”, esistente solo nel fanatismo fascista. E ora?

Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra

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