Finanza / Opinioni
Dai fondi al debito estero: come (non) funziona il turbocapitalismo finanziario
Come nel 1929, il valore finanziario è molto più alto rispetto ai dati economici reali ma questa volta il sistema è totalmente monopolizzato da pochissimi attori che governano il risparmio di milioni di individui, allungando così i tempi di esplosione della bolla. Le ricadute su Stati e persone sono salate. L’analisi di Alessandro Volpi
Nel 2023 sei società -Amazon, Alphabet, Meta, Apple, Microsoft e Netflix- hanno registrato un incremento di valore del 56% rispetto al 2022, ben più alto dell’aumento dei loro ricavi, pari all’11%, e del fatturato, che si è attestato poco sotto al 10%. Come è stato possibile? I loro principali azionisti, che sono BlackRock, Vanguard e State Street e detengono una percentuale vicina al 20-25% in tutte e sei le società, hanno drenato in tale direzione i loro colossali attivi, costituiti dalla grande messe dei risparmiatori del Pianeta.
In questo modo, come nel 1929, il valore finanziario è molto più alto rispetto ai dati economici reali, ma questa volta il turbocapitalismo finanziario è totalmente monopolizzato da pochissimi attori che governano il risparmio di milioni di individui, allungando così i tempi di esplosione della bolla. Intanto la alimentano anche con centinaia di migliaia di licenziamenti: 260mila in un anno solo nel settore hi-tech. In pratica, le dimissioni -che nel 1929 furono la conseguenza dell’esplosione della bolla- ora servono, insieme al monopolio del risparmio, a tenerla in vita ingigantendo le disuguaglianze: chi ha la ricchezza finanziaria prospera mentre chi lavora si impoverisce.
Questo “modello” risulta chiaro anche guardando a quello che succede in Europa. BlackRock e Vanguard, i due più grandi fondi finanziari del mondo, gestiscono risparmi per 430 miliardi di euro il primo e 237 miliardi il secondo. Se a questi si aggiungono Jp Morgan e Fidelity, il totale supera ampiamente i mille miliardi di euro. Un inciso: i principali azionisti di Jp Morgan e Fidelity sono proprio BlackRock e Vanguard.
Questi mille miliardi di euro sono indirizzati per quasi il 70% all’acquisto di azioni, che in larghissima parte sono quelle di un centinaio di società, quotate alla Borsa di New York, di cui BlackRock e Vanguard sono i principali azionisti. In sintesi, i risparmi europei sono in buona misura monopolizzati da due fondi che li indirizzano verso le proprie società negli Stati Uniti: un formidabile travaso di ricchezza che si autoalimenta poiché questa enorme liquidità garantisce a quel centinaio di società un valore ben superiore di quello reale.
A un simile modello contribuiscono anche altri soggetti europei. Il Fondo sovrano norvegese, di proprietà dello Stato, ha registrato quest’anno un utile record di 213 miliardi di dollari. Come ha fatto? Ha indirizzato la liquidità che proviene dalle entrate di gas e petrolio in acquisti di azioni in circa ottomila società di tutto il mondo, di cui detiene quasi il 2% del capitale. In sostanza uno Stato opera come Vanguard, BlackRock e State Street, ponendo in essere una condotta molto aggressiva che si alimenta dalla vendita dei combustibili fossili e dalle speculazioni sui titoli internazionali.
Vale la pena ricordare che tutto il Prodotto interno lordo norvegese vale poco più di 400 miliardi di dollari. Una monarchia finanziaria che ha certamente tratto grande aiuto dalle sanzioni applicate alla Russia: a proposito di modello nordico.
Nel frattempo l’Africa ha un problema enorme: il debito estero, che dipende, in larga misura, dagli alti tassi che i prestatori americani ed europei, a partire da fondi, impongono agli Stati africani. La cifra che questi devono restituire a realtà estere ammonta a 655 miliardi di dollari: per 282 miliardi sono debiti verso investitori privati, per 233 verso organizzazioni multilaterali e il resto per accordi bilaterali tra Stati. Per finanziare questo debito i governi pagano interessi giganteschi che consumano ogni anno il 7% del Pil africano. E per versare queste somme ai creditori, moltissimi Stati perdono risorse decisive, dovendo quindi rinunciare a infrastrutture essenziali, a sanità e istruzione. Per effetto di questa situazione nel giro di due anni sono già falliti quattro Stati.
Come è prevedibile una simile povertà contribuisce a spingere a movimenti migratori e a generare continui conflitti. Sarebbe sufficiente che gli Stati e le organizzazioni multilaterali creditrici accettassero di ridurre in maniera drastica gli interessi e la situazione complessiva del continente africano cambierebbe in profondità; senza ricorrere a forme di ulteriore colonizzazione come il cosiddetto “Piano Mattei”. Forse così anche l’ostilità del cosiddetto “Sud globale” verso l’Occidente avrebbe minore forza. Peraltro, il peso asfissiante del debito estero riguarda complessivamente 52 Paesi in giro per il mondo che, non a caso, sono i principali luoghi di partenza dei “migranti”. Ma questo al turbocapitalismo interessa poco. Gli Stati, del resto, servono solo a reprimere.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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