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Diritti / Attualità

“Da quindici anni ho la fortuna di riuscire a beffare il destino”

Il cronista Donato Ungaro avrebbe ricostruito gli interessi della mafia nelle imprese e nelle amministrazioni locali emiliane. Minacciato dalla ‘ndrangheta, che aveva un piano per ucciderlo, non ha mai smesso di denunciare. Il suo racconto

Tratto da Altreconomia 232 — Dicembre 2020
“Le rive del Po” è il reportage che Donato Ungaro, in alto, ha scritto per Altreconomia nel gennaio 2016. Oltre al premio “Pio La Torre” al giornalista è stato attribuito anche il premio Ambrosoli (2018) e “Liberta di stampa” FNSI e Articolo21 (2019) © Festival dei diritti umani

Se verranno riscontrate le parole del collaboratore di giustizia Vincenzo Marino, sto rubando un pezzo di vita al destino. Da una quindicina d’anni. Poteva essere il 2004, anno più anno meno, e la ‘ndrangheta avrebbe dovuto “sistemarmi”. Facevo il giornalista all’epoca dal paese di Peppone e don Camillo. Scrivevo di cronache locali, di iniziative legate ai personaggi nati dalla fantasia di Giovannino Guareschi, qualche parola di sport, un po’ di politica strapaesana e le iniziative degli imprenditori della zona. Robetta da giornalismo di provincia. Avevo iniziato nell’ottobre del 2001, chiedendo il permesso al sindaco di Brescello, l’avvocato Coffrini; sì, perché lavoravo come vigile urbano tra le statue del parroco e del primo cittadino guareschiani: e la voglia di scrivere era una passione.

Una realtà bucolica e beata; che cosa c’entra la ‘ndrangheta? C’entra perché oltre agli argomenti elencati, ogni tanto mi toccava anche trattare di altre questioni: scritte intimidatorie sui capannoni, auto bruciate o rovinate con l’acido, bar chiusi in fretta e furia dopo un probabile tentativo di estorsione; l’omicidio di un pastore reggiano, in provincia di Parma, nel  luglio 2003. Di una centrale elettrica da 800 MegaWatt che dovevano costruire a Brescello e di scarti di fonderia usati come sottofondo stradale, di escavazioni abusive nel Po (vedi Ae 178). Avevamo fatto anche un servizio con “Le Iene” di Italia Uno sulle draghe che pescavano la sabbia nel letto del grande fiume.

“Secondo gli amministratori brescellesi io non scrivevo di mafia. Al massimo di politica locale (che mi ha licenziato) e di imprenditori (che mi hanno querelato)”

Certo, qualche segnale mi era arrivato: come quando tagliarono le gomme del mio furgoncino. Due volte: il 14 marzo 2004 e il successivo 29 aprile. E i “consigli” a lasciar perdere certi argomenti ma con il sorriso -per carità- e un gioviale dialetto calabrese. Ma anche un paio di questioni giudiziarie: una richiesta danni per 250mila euro in sede civile e una querela per diffamazione a mezzo stampa (entrambe risolte in un nulla di fatto). E poi il licenziamento dal Comune di Brescello perché avrei potuto rivelare segreti d’ufficio. Quali segreti? Non si sa e infatti l’atto è stato dichiarato illegittimo in tre gradi di giudizio. Ma arrivare a “sistemarmi”, chi lo poteva pensare? Da parte della ‘ndrangheta, poi.

Anni dopo, nel 2015, un sindaco brescellese fece scrivere sul giornale che dietro al mio licenziamento non c’erano questioni di mafia: “…di criminalità organizzata non v’è traccia”, firmato Coffrini. No, non l’Ermes Coffrini che mi ha “licenziato”: il figlio, Marcello.  Sì perché a Brescello, dal 1974 al 2016 un Coffrini in Giunta -come sindaco o come assessore- c’è sempre stato. Tutti e due avvocati, padre e figlio. Con studio in centro a Reggio Emilia e cause in giro per mezza Italia; come quella davanti al TAR di Catanzaro, dove lo studio Coffrini difendeva i Grande Aracri, la famiglia “cutro-brescellese” che dà il nome alla cosca finita nei processi Aemilia e Grimilde (Reggio Emilia), Pesci (Mantova), Camaleonte (Vicenza e Padova), Kiterion (Crotone), Aemilia ‘92 (Reggio Emilia, per due omicidi commessi nel 1992: a Reggio e a Brescello).

Il consiglio comunale di Brescello è stato sciolto per “forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’amministrazione a pressanti condizionamenti” nel 2016

Marcello ha fatto il sindaco fino al 2016 perché poi è intervenuto un decreto con il quale il consiglio comunale di Brescello è stato sciolto per “forme di ingerenza della criminalità organizzata che hanno esposto l’amministrazione a pressanti condizionamenti”, firmato Sergio Mattarella. Ma anche in tempi più recenti, il vicesindaco Stefano Storchi -marito di un’assessora della giunta Coffrini, il primo: Ermes- l’11 marzo 2019 mi ha espresso pubblicamente gratitudine “per aver spiegato che il tema della ‘ndrangheta non ha influito sul suo licenziamento”. Quindi, secondo gli amministratori brescellesi, io non scrivevo di mafia. Punto. Al massimo di politica locale (che mi ha licenziato) e di imprenditori (che mi hanno querelato). E allora perché il 24 luglio 2020 Vincenzo Marino, detto Vichs, davanti alla Corte d’Appello di Bologna dice: “A Reggio Emilia si doveva sistemare un assessore comunale per un piano regolatore e un giornalista che dava fastidio, il Dottore Ungaro […]  il giornalista si stava occupando di cose molto serie, Dottore, stava cominciando a toccare i soldi”?

E nella sentenza Aemilia, dove il Marino aveva già accennato al giornalista da sistemare, i giudici scrivono di un incontro tra Marino e un certo Antonio Muto, di Gualtieri: “L’incontro avvenne perché doveva risolvere una questione con un giornalista che gli dava fastidio, tanto che avevano maturato il progetto di ucciderlo”; per quel progetto, l’organizzazione aveva fornito a Marino, attraverso un ragazzo napoletano, un certo Sasà, due pistole calibro nove e una valigia (testuale) di proiettili. Che legame c’era, se c’era, tra chi mi ha licenziato, chi mi ha querelato e chi aveva deciso di “sistemarmi”? La domanda è retorica; e i legami dovranno ricostruirli gli inquirenti. A me basta aver avuto la fortuna di riuscire -mio malgrado- a beffare il destino.

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