Economia / Opinioni
Da che cosa dipende la nuova fiammata dell’inflazione che non si vedeva da 40 anni
La lievitazione dei prezzi energetici dipende dalla possibilità di speculare sul prezzo dell’energia. Si tratta di un fenomeno determinato dalle trasformazioni del mercato degli anni Ottanta, quando si è deciso di spostare l’asse di produzione dei redditi e della ricchezza dall’economia reale alla finanza. L’analisi di Alessandro Volpi
Dopo essere scomparsa dalla scena economica, l’inflazione è riemersa, spingendosi ben sopra il 7% negli Stati Uniti e il 5% in Europa, con punte del 6% in Germania. Si tratta di un’inflazione che non dipende da condizioni monetarie, almeno non in Europa e negli Stati Unit: euro e dollaro restano monete stabili nonostante, dopo la crisi del 2008, la loro produzione e la loro circolazione siano aumentate. Diversi sono i casi della Russia e della Turchia, o di vari Paesi Sudamericani dove l’inflazione dipende ancora da monete deboli. L’inflazione non dipende neppure da un forte aumento dei consumi; anzi alla domanda mondiale mancano ancora circa 2.000 miliardi di euro.
La geopolitica incide, ma non è decisiva. Certamente il forte taglio degli approvvigionamenti di gas dalla Russia legato alla crisi ucraina è importante. In Italia tali approvvigionamenti si sono ridotti a gennaio di sei volte rispetto al 2019 e dimezzati rispetto a dicembre, ma, nell’insieme, non sono paragonabili agli effetti della guerra dello Yom Kippur del 1973 o al blocco dello stretto di Hormutz nel 1979. Esistono vari “colli di bottiglia” nell’approvvigionamento di beni e materie prime legati alla pandemia e al metodo del “Just in time” ma è molto probabile che simili limiti vengano rimossi con una certa rapidità.
Da che cosa dipende allora questa nuova fiammata inflazionistica che non si era manifestata da almeno 40 anni?
In primo luogo è bene chiarire che si tratta soprattutto di un’inflazione dettata dal forte rialzo del prezzo dell’energia che incide sui prezzi di tutti i beni; togliendo i rincari energetici, l’inflazione sarebbe molto contenuta, poco sopra il 2%. Questa lievitazione dei prezzi energetici dipende in primis dalla speculazione finanziaria; dalla possibilità di scommettere sul prezzo dell’energia. Si tratta di un fenomeno determinato dalle trasformazioni negli strumenti di mercato avvenuti dagli anni Ottanta quando si è deciso di spostare l’asse di produzione dei redditi e della ricchezza dall’economia reale alla finanza.
Il prezzo dei prodotti energetici non è fissato dall’offerta e domanda reale ma dalle scommesse fatte sui contratti originari dai derivati che finiscono per determinare i prezzi da cui partono i contratti successivi; quindi la speculazione determina gli andamenti di mercato in misura maggiore rispetto alle dinamiche della domanda e dell’offerta. In una simile prospettiva, la geopolitica diventa un fattore di cui le scommesse tengono conto per definire la propria direzione di marcia. In estrema sintesi è la speculazione che utilizza la variabile geopolitica, non è la geopolitica a generare la crisi energetica in quanto tale.
Su questo meccanismo, nel caso europeo, incidono due ulteriori fattori. Il mercato del gas in Europa si basa su contratti giornalieri e non su contratti di medio-lungo periodo; tali contratti risentono della variabilità delle speculazioni. In Europa pesano i sovraprofitti delle società produttrici di energia da fonti rinnovabili che adeguano il loro prezzo a quello dei combustibili fossili senza averne i costi. Pesa poi un terzo elemento costituito dalla transizione ambientale; di fatto il gas è la sola fonte energetica ammessa dalla normativa europea nella fase transitoria e dunque è oggetto di scommesse costantemente al rialzo.
Nel caso del gas italiano, inoltre, occorre tener presente che circa la metà del prezzo dipende da oneri di sistema e dal carico fiscale; elementi che in questa fase tendono a contribuire agli extraprofitti delle fonti energetiche rinnovabili, a cui è destinata una parte degli incentivi contenuti nelle bollette.
Le conseguenze di questa nuova inflazione possono essere molto pesanti. Si tratta di una vera e propria tassa sui redditi e sui patrimoni con la decurtazione del valore d’acquisto. Tale tassa è particolarmente dura per il risparmio e per i titoli del debito in pancia alle banche, a cominciare dalla Bce. Pesa poi sulle fasce di lavoratori a reddito fisso a cui, nel tempo, sono state tolte praticamente tutte le forme di indicizzazione delle retribuzioni. L’inflazione genera il rialzo dei tassi e le difficoltà di collocamento del debito pubblico. La linea della Federal Reserve sembra già definita in tal senso e le pressioni tedesche sulla Bce sono altrettanto chiare; non a caso il rendimento dei titoli di Stato italiani, a dieci anni, si avvicina al 2% e il costo degli interessi sul bilancio dello Stato tende a salire rapidamente. Si produce quindi la prospettiva di una riduzione della spesa pubblica e del complesso degli interventi di welfare coperti negli ultimi anni con il debito: circa la metà della spesa pubblica per fronteggiare la pandemia è stata affrontata con una crescita del debito. L’inflazione rischia di far saltare anche molti dei programmi del Next Generation Eu perché ne fa lievitare i costi.
Come si esce da una simile situazione? È evidente che la prima cosa da fare è battere la speculazione finanziaria, smontando, in sede normativa, gran parte dell’armamentario di strumenti creati, o modificati “geneticamente”, a partire dagli anni Novanta; bisogna riportare la dimensione del mercato dell’energia, delle commodities e ancor più dei beni agricoli al rapporto fra domanda e offerta reale. Senza questa premessa, è molto probabile che le indispensabili politiche ambientali e i cambiamenti degli stili di vita intervengano troppo tardi rispetto ad un’ulteriore polarizzazione della ricchezza.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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