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Diritti / Approfondimento

Covid-19 e crisi climatica minacciano i diritti delle bambine

Una bambina studia nella sua casa a Cox’s Bazar, Bangladesh © UNICEF/UN0541766/Satu

In diverse aree del mondo i due fenomeni stanno facendo aumentare il numero di vittime di matrimoni precoci e mutilazioni genitali. A rischio anche la frequentazione della scuola, uno dei principali strumenti per l’emancipazione delle giovani donne. La fotografia del dossier InDifesa di Terre des hommes

Le conseguenze della pandemia continuano a erodere i diritti e minacciare la salute delle bambine e delle ragazze in tutto il mondo. Il Covid-19 e le misure adottate per contenerne la diffusione rischiano infatti di annullare decenni di progressi conseguiti per contrastare le mutilazioni genitali femminili: nei Paesi dell’Africa subsahariana l’incidenza del fenomeno ha registrato un calo significativo negli ultimi trent’anni, passando dal 49% delle ragazze tra i 15 e i 19 anni nel 1990 al 34% del 2021. Ma le difficoltà a spostarsi e le restrizioni alla circolazione imposte da molti governi tra il 2020 e il 2021 hanno impedito per mesi ad attivisti e operatori delle Ong di raggiungere i villaggi. Inoltre molte famiglie hanno approfittato della chiusura forzata delle scuole per sottoporre le figlie -bambine o appena adolescenti- al taglio dei genitali, un rito che in molti Paesi precede il matrimonio. Se prima del Covid-19 le Nazioni Unite avevano previsto che la pratica del “taglio” avrebbe interessato circa 68 milioni di bambine nei successivi dieci anni, l’inizio della pandemia ha fatto aumentare questa stima di ulteriori due milioni.

Il dossierInDifesa”, curato dall’Ong Terre des Hommes e presentato a Roma il 6 ottobre scatta un’istantanea preoccupante sullo stato globale dei diritti delle bambine e delle ragazze aggravato dalle conseguenze della pandemia da Covid-19, ma non solo. La siccità, che per il terzo anno consecutivo sta flagellando il Corno d’Africa, e l’aumento dei prezzi dei generi alimentari causato dalla guerra in Ucraina hanno determinato in diversi Paesi della regione anche una maggiore (e preoccupante) incidenza dei matrimoni precoci. Secondo Unicef nei distretti etiopi più colpiti dalla carestia il numero di bambine costrette a sposarsi prima dei 18 anni sarebbe aumentato del 119% tra gennaio e aprile 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Per molti genitori, in particolare per quelli più poveri, dare in sposa una o più figlie rappresenta una strategia di sopravvivenza: non solo la famiglia ha una bocca in meno da sfamare ma può sperare di trarre beneficio dal pagamento del prezzo della dote. Anche in questo caso, l’emergenza climatica rischia di vanificare gli sforzi messi in atto dalle associazioni locali e dalle Ong internazionali per contrastare i matrimoni precoci, la cui incidenza nella regione è diminuita del 30% negli ultimi trent’anni. Ogni anno si sposano circa 12 milioni di bambine e ragazze prima di aver compiuto 18 anni e nel 2019, prima della diffusione del Covid-19, Unicef stimava che entro il 2030 circa 100 milioni di adolescenti sarebbero state costrette a sposarsi. La crisi economica causata dalla pandemia e la decisione di molti governi di chiudere le scuole per mesi (in certi casi anche per più di un anno) hanno creato le condizioni che hanno messo a rischio ulteriori 10 milioni di bambine e ragazze.

Il dossier evidenzia come i cambiamenti climatici minaccino il diritto fondamentale di bambini e ragazzi all’istruzione, al cibo e alla ricreazione: “Considerato il fatto che i più giovani sono i meno responsabili di questa situazione rispetto agli adulti, il cambiamento climatico è stato definito dal Consiglio per i diritti umani ‘la più grave ingiustizia intergenerazionale dei nostri tempi'”. Alluvioni, tempeste e siccità amplificano le discriminazioni e le diseguaglianze di genere, limitando o impedendo alle bambine e alle ragazze, in particolare a quelle che vivono nei Paesi più poveri e nelle comunità più vulnerabili, di frequentare la scuola. Secondo uno studio condotto dalla Malala Foundation, solo nel 2021, a causa degli impatti del cambiamento climatico, almeno quattro milioni di bambine e ragazze nei Paesi a medio e medio-basso reddito non hanno potuto completare il ciclo di studi. In Somalia, tra il 2018 e il 2019, a seguito della migrazione dalle aree rurali verso la città a causa di esondazioni, siccità e conflitti, i tassi di iscrizione delle studentesse sono scesi dal 45% al 29%. Un altro esempio di questa discriminazione arriva dal Botswana: dove il 70% degli studenti che hanno lasciato la scuola durante un periodo di siccità erano di sesso femminile.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, prima del diffondersi del virus circa 129 milioni di bambine e ragazze non frequentavano la scuola. Una situazione determinata da molteplici fattori: nei Paesi segnati da conflitti e violenze, ad esempio, le studentesse sono particolarmente esposte a rischi nel tragitto tra casa e scuola. Mentre nei contesti più poveri le famiglie preferiscono investire le proprie scarse risorse per l’istruzione dei figli maschi, destinati al mondo del lavoro e quindi capaci di generare ulteriore reddito. Quella delle figlie femmine passa invece in secondo piano dal momento che si immagina per loro un futuro di mogli e madri o perché impegnate nella cura dei fratelli più piccoli e nello svolgimento di lavori domestici accanto alle madri. Proprio il maggiore impegno richiesto tra le mura di casa può essere una delle cause che spinge le studentesse ad abbandonare la scuola: nei Paesi a basso reddito, solo il 63% delle bambine completa la scuola primaria (contro il 67% della componente maschile) e solo il 36% completa la secondaria (44% per i maschi). La forbice resta simile rispetto alla quota di ragazzi (26%) e ragazze (21%) che arrivano al termine della secondaria superiore.

Anche in questo ambito il Covid-19 andrà ad aggravare una situazione già complessa. Dai primi mesi del 2020 le Nazioni Unite stimavano in 11,2 milioni le studentesse (dalla scuola materna alle superiori) a rischio di dispersione scolastica perché impossibilitate ad accedere alle lezioni a distanza (quando disponibili), costrette a lavorare per sostenere la famiglia o a sposarsi. Non esistono ancora dati consolidati che permettano di scattare una fotografia complessiva dell’impatto del Covid-19 sull’accesso all’istruzione femminile, ma alcuni numeri raccolti in diversi Paesi del mondo evidenziano un quadro particolarmente preoccupante: in Bangladesh una ragazza su dieci nella fascia d’età 12-15 anni non è tornata sui banchi dopo la riapertura delle scuole; in Ghana il 60% degli studenti che hanno interrotto gli studi erano di sesso femminile; mentre in Kenya il 16% delle ragazze tra i 15 e i 19 anni non era tornato in classe nei due mesi successivi alla riapertura delle scuole (contro l’8% dei coetanei maschi).

Investire sulla scuola permetterebbe di cambiare in meglio (e in maniera radicale) la qualità della vita di milioni di ragazze e giovani donne: la possibilità di restare sui banchi il più a lungo possibile, infatti, rappresenta una delle forme di intervento più efficaci per contrastare i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili. I dati contenuti nel dossier InDifesa mostrano come le figlie di donne che hanno completato almeno il ciclo di istruzione primario abbiano il 40% in meno di possibilità di subire il “taglio”. E il rifiuto di questa pratica cresce con l’aumentare del livello di istruzione: in Etiopia, ad esempio, l’incidenza delle mutilazioni genitali femminili è dell’85% più bassa tra le figlie di donne che hanno completato la scuola secondaria rispetto a quelle che non hanno studiato.

Il dossier InDifesa evidenzia come l’accesso all’istruzione rappresenti un elemento cruciale per garantire il benessere, il rispetto dei diritti di bambine e ragazze, ma anche il loro futuro in ambito lavorativo. Nell’accesso all’università, ad esempio, le studentesse continuano a preferire le facoltà umanistiche, mentre solo una minoranza sceglie le discipline dell’ambito Stem (Science, technology, engineering and mathematics) che offrono migliori opportunità di inserimento lavorativo e l’accesso a professioni meglio retribuite. In Europa, solo il 34% dei laureati nelle discipline Stem è di sesso femminile e le differenze di genere permangono anche nella scelta dei percorsi post-universitari e, di conseguenza, anche nel mondo del lavoro. Secondo i dati dell’Unione europea chiudere il gender gap nell’ambito Stem permetterebbe di creare 1,2 milioni di posti di lavoro in più entro il 2050. Un settore dove, tra l’altro, gli stipendi sono mediamente più elevati rispetto ad altri ambiti.

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