Finanza / Opinioni
Così JP Morgan è diventata la più grande banca del Pianeta
“Salvando” la First republic bank, il colosso Usa è divenuto il primo a livello globale, ponendosi al di sopra delle (eventuali) restrizioni delle autorità di controllo. Il tutto grazie a un’inflazione speculativa stimolata proprio dai grandi fondi che possiedono anche i giganti che comprano le banche in affanno. L’analisi di Alessandro Volpi
JP Morgan ha “acquistato” la fallita First republic bank, rilevando depositi per oltre 100 miliardi dollari e oltre 220 miliardi di attività. L’operazione è stata garantita dall’Autorità federale di “assicurazione” dei depositi per oltre la metà dell’esposizione dell’istituto californiano. In questo modo JP Morgan è diventata la più grande banca degli Stati Uniti, e dunque del Pianeta, che, di fatto, proprio perché così strategica per l’intero sistema creditizio statunitense e per le gigantesche garanzie dell’Autorità federale sarà l’unica banca privata che non potrà fallire.
In altre parole, “salvando” First republic bank, JP Morgan è divenuta il soggetto finanziario più potente del mondo e, in tal modo, si è posta al di sopra delle eventuali restrizioni normative che le autorità di controllo, Sec e Federal Reserve, potranno introdurre magari dietro lo stimolo tardivo della Segreteria al Tesoro e della fin troppo “distratta” presidenza di Joe Biden. Nell’ambito di una simile dinamica è interessante rilevare che i principali azionisti di JP Morgan sono i grandi fondi hedge, a cominciare da Vanguard, Capital research & management e BlackRock.
La morale della vicenda appare così abbastanza scontata: questi fondi, attraverso una vasta produzione di strumenti derivati e di scommesse, hanno spinto l’inflazione speculativa che ha indotto la Federal reserve ad alzare i tassi destinati a sfasciare le banche piccole e medie come First republic e ora, quegli stessi fondi, tramite JP Morgan, se le comprano e, soprattutto, comprano la loro intoccabilità. Janet Yellen e Jerome Powell, cioè governo e Fed, sanno bene così a chi dovranno rispondere.
Ma forse è opportuno aggiungere qualche ulteriore dettaglio al racconto di questa vicenda. Nel giro di pochi giorni altre banche “regionali” degli Stati Uniti hanno iniziato ad andar sotto. In particolare, Pacwest, Western alliance e First horizon sembrano nelle condizioni di essere acquisite da un “cavaliere bianco”, disponibile a evitarne il fallimento. L’ipotesi, come accennato, è che i loro proprietari le abbiano fatte correre a rotta di collo dopo aver convinto l’ex presidente Donald Trump a togliere i controlli sulle banche con attivi inferiori a 250 miliardi di dollari. Le banche più “piccole” -in realtà tutt’altro che piccole visto che in Italia, ad esempio, ci sono solo tre istituti con attivi superiori ai 250 miliardi di dollari- hanno così furoreggiato per un po’ e poi, con l’arrivo dei tassi alti della Fed, sono entrate in crisi.
I loro proprietari, tuttavia, non si sono persi d’animo. Hanno deciso di far capire ai cosiddetti mercati che tali banche stanno per essere comprate da un colosso di cui, magari, quei proprietari sono i principali azionisti. In pratica, tutti perdono meno loro, che hanno avviato colossali vendite allo scoperto e sanno di fidare sugli aiuti di Stato.
Ma chi sono questi proprietari che possiedono anche i colossi che comprano le banche in affanno? Risposta facile facile: i già ricordati grandi fondi hedge, i soliti Vanguard, BlackRock, Capital research & management. Ultima chicca. Apple ha inventato un conto deposito che in pochissimi giorni ha raccolto oltre un miliardo di dollari. I giornali scrivono che in questo modo Apple fa “concorrenza alle banche. Di nuovo, chi sono i principali azionisti di Apple? La risposta è, ancora una volta, facile facile: Vanguard, BlackRock, Berkshire Hathaway e State street corporation possiedono il 25% di Apple. Sono gli stessi fondi che sono azionisti decisivi di JP Morgan e di gran parte del sistema bancario mondiale. Alla faccia della concorrenza.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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