Economia / Opinioni
Come riportare equità nel sistema pensionistico italiano
I severi criteri di accesso al pensionamento hanno colpito le fasce più svantaggiate. Che cosa fare dopo la fine del meccanismo “Quota 100”. La rubrica a cura dell’Osservatorio sulla coesione sociale
Il Governo Draghi, e verosimilmente i successivi, dovrà affrontare un’importante questione in campo previdenziale: come assicurare un equo accesso al pensionamento per i lavoratori prossimi alla quiescenza dopo la fine di “Quota 100”, il 31 dicembre 2021, che riporterebbe le lancette dell’età pensionabile al 2019 e alle severe condizioni dettate dalla riforma Fornero-Monti. L’osservazione dei dati comparati contenuti nel Pension adequacy report 2021 della Commissione europea fa cogliere l’origine del problema. È noto che, per decenni, l’Italia ha mantenuto regole “morbide” e a volte inique -come le “baby pensioni” per i dipendenti pubblici- che hanno consentito il pensionamento ben prima che negli altri Paesi europei. Tutto ciò è ormai un lontano ricordo. Le riforme Sacconi (2009 e 2010) e Fornero-Monti (2011) hanno ristretto severamente le condizioni di accesso alla pensione portando l’età pensionabile italiana al livello più alto d’Europa: 67 anni contro i 65 e 9 mesi in Germania, 66 e 2 mesi in Francia, 65 in Austria, Belgio e Polonia.
Inoltre Francia e Germania consentono strutturalmente il pensionamento anticipato rispettivamente a 62 anni e 63 anni e 10 mesi, mentre la Svezia permette il pensionamento “flessibile” nella fascia 62-68 anni. Non solo, anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro (tipicamente più bassa dell’età legale di pensionamento per via dei canali di uscita anticipata) è tra le più elevate d’Europa: 65,2 anni per gli uomini, 65,8 anni per le donne nel 2019, in linea con i Paesi scandinavi (Danimarca: 65 anni gli uomini, 64,1 le donne; 65,6 e 64,5 in Svezia) e sensibilmente più alta di Germania (64,7 e 64,5) e Francia (62,3 e 62,2).
65,8 anni: l’età media di uscita dal mercato del lavoro delle donne in Italia
Requisiti di pensionamento così stringenti pongono almeno tre tipi di problemi. In primo luogo l’incremento dei disoccupati nella fascia d’età 50-64 anni, dalle 128mila unità del 2007 alle 539mila del 2018, con il relativo tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 6% nel 2019 mentre è al 2,5% in Germania e al 3,3% in Danimarca. È un fenomeno nuovo e preoccupante per l’Italia per via delle peculiarità di questi lavoratori, spesso capifamiglia e con scarse possibilità di trovare un’occupazione regolarmente retribuita dopo i 55 anni.
Secondo: la riduzione della durata media del pensionamento di oltre quattro anni tra il 2008 e il 2018 è avvenuta a fronte di un incremento modesto (un anno) dell’aspettativa di vita a 65 anni nello stesso periodo e soprattutto della stabilità, nell’ultimo quindicennio, del numero di “anni attesi in buona salute” (circa 10) una volta raggiunti i 65 anni: criticità evidenti emergono nel rapporto tra durata della vita lavorativa e durata della fase di quiescenza in buona salute, specie per le categorie sociali con minore aspettativa di vita. Terzo: numerosi studi hanno messo a fuoco come, anche in Italia, le differenze nell’aspettativa di vita a 65 anni sono significative e raggiungono i 3-5 anni a sfavore degli individui nella classe sociale più svantaggiata. Se osservato rispetto all’elevata età di pensionamento, tale differenziale indica il chiaro profilo regressivo delle regole previdenziali italiane a danno degli individui con condizioni di vita e lavoro meno favorevoli.
Ammorbidire le condizioni di accesso al pensionamento è dunque auspicabile se si vogliono perseguire coesione ed equità sociali, contrastando le criticità causate dalle riforme precedenti sul mercato del lavoro e aggredendo l’iniquità delle condizioni attuali.
Matteo Jessoula insegna Scienza politica all’Università degli Studi di Milano. Fa parte dell’Osservatorio sulla coesione sociale
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