Altre Economie
Cina, i diritti negati ai lavoratori delle calzature
di La redazione —
Lavoro straordinario, irruzioni della polizia negli stabilimenti durante gli scioperi, formazione assente e livelli retributivi al di sotto della soglia "dignitosa". È quel che emerge dal report “Tricky footwork: la lotta per i diritti nell’industria cinese delle calzature”, curato dalla campagna "Change your shoes", che ha raccolto le testimonianze degli operai cinesi di terzisti di marchi celebri
“Mentre scioperavamo, la polizia ha aizzato i cani contro di noi istigandoli a mordere”. Alle 18 organizzazioni promotrici della campagna “Change your shoes” è capitato di ascoltare anche frasi come queste, in Cina, durante i lavori di ricerca sul settore delle calzature.
Lo studio che ne è risultato -intitolato “Tricky footwork: la lotta per i diritti nell’industria cinese delle calzature”– ha raccolto le 47 interviste realizzate nel 2015 a lavoratori occupati presso terzisti di noti marchi (da Adidas a Clarks) in tre stabilimenti (Yue Yuen Industrial Holdings Ltd., il colosso, Stella International Holdings Ltd. e Panyu Lide Shoes Industry Co. Ltd) del primo Paese al mondo per produzione di scarpe, con 15,7 miliardi di paia nel 2014 (il principale importatore sono gli Stati Uniti d’America).
Non è soltanto una denuncia circostanziata dei diritti dei lavoratori nell’industria cinese delle calzature e delle condizioni di lavoro più in generale, ma anche una fotografia della dinamica produttiva in costante mutamento. “I principali centri produttivi erano tradizionalmente localizzati nelle province costiere del Guangdong, Fujian e Zhejiang -si legge nel report- ma l’aumento dei costi di produzione in queste aree ha spinto le aziende a decentrare la produzione nella Cina interna, in particolare nella provincia del Sichuan che ha visto una rapida crescita delle attività manifatturiere. Il Guangdong resta comunque l’area industriale per eccellenza, anche per il settore calzaturiero. Gli stabilimenti si concentrano nel delta del fiume delle Perle. I centri produttivi più importanti sono situati a Heshan, Huidong e Dongguan”.
Quel che emerge “contrasta” con l’immagine di una Cina dotata di leggi sul lavoro avanzate, in grado di garantire diritti e prerogative agli occupati. Basti considerare il fatto che due convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), la numero 87 sulla libertà di associazione e la 98 sul diritto alla contrattazione collettiva, ancora oggi non sono state ratificate -tanto meno attuate- dal Paese.
“Il settore delle calzature è molto dinamico e la Cina gioca un ruolo fondamentale all’interno della rete di fornitura globale che assegna a diversi Paesi funzioni produttive diverse- ha affermato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Abiti Puliti-. Purtroppo questo porta ad una competizione senza regole che sacrifica i diritti dei lavoratori e ostacola processi di emancipazione nelle fabbriche”.
Uno scenario che si riproduce continuamente nelle fabbriche battute dal rapporto della campagna “Change your shoes”. La stragrande maggioranza degli intervistati “non hanno saputo dire come vengono scelti i rappresentanti sindacali”. Alcuni sono stati testimoni di “interventi della polizia nelle fabbriche”. E poi il 52% degli intervistati ha riferito di esser stato “costretto” a prestare lavoro straordinario, o aver lavorato in “condizioni inaccettabili” per odori sgradevoli, aria insufficiente, rumore, macchinari pericolosi. Di fronte a tutto questo, la All-China federation of trade Unions (ACFTU) “non svolge un ruolo attivo”, o perché assente o perché disinteressata ad attuare i suoi “doveri statutari”. Il salario è sotto il livello retributivo medio considerato “dignitoso”, la formazione su salute e sicurezza ha interessato meno di un quinto degli operai e l’orario di lavoro non rispetta mai le 8 ore giornaliere (in media gli intervistati lavorano 10,6 ore al giorno).
L’appello della campagna è semplice: “migliorare le condizioni di lavoro in tutte le fabbriche”, garantendo ai lavoratori il diritto di stringersi in organizzazioni sindacali indipendenti e scioperare. Al governo regionale del Guangdong -dove insistono i siti principali- è “raccomandato” di verificare con maggiore attenzione e cura la gestione dei lavoratori più giovani, “vietando il lavoro straordinario”.
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