Finanza / Opinioni
Chi ci guadagna dal distopico dibattito sul tetto al debito federale degli Stati Uniti
Il debito Usa esplode ma nessuno crede davvero al default. Intanto le scommesse sul fallimento consentono benefici da centinaia di miliardi agli speculatori. Lo show della finanza -più forte della politica- è così in grado di coinvolgere persino il Congresso più influente del Pianeta, adoperandolo per i propri fini. L’analisi di Alessandro Volpi
La discussione sul tetto al debito federale degli Stati Uniti presenta caratteri distopici. È sempre più evidente, infatti, che si tratta di un dibattito tra repubblicani e democratici contraddistinto da aspetti fortemente ideologici, individuabili nella diversa visione della spesa pubblica, ma che al contempo presenta elementi decisamente surreali e, per molti versi, assai funzionali alla proliferazione delle occasioni di speculazione.
In primo luogo, occorre rilevare che l’attuale tetto al debito degli Stati Uniti, ormai raggiunto a gennaio, è fissato a 31,4mila miliardi di dollari, pari al 129% del Pil del Paese. Tale debito era di poco inferiore ai 10mila miliardi di dollari solo nel 2007. Questo significa che in 15 anni gli Stati Uniti, al di là del colore politico delle presidenze, hanno riversato nella propria economia oltre 20mila miliardi di dollari che, in parte, sono serviti anche per un’importante riduzione del carico fiscale.
Si tratta di una colossale quantità di aiuti di Stato, partorita in genere per coprire gli eccessi della finanza e per sostenere la spesa militare, a cui in Europa abbiamo risposto coltivando le strategie dell’austerità. In pratica, in nome del credo di un non ben definito “mercato libero”, nel Vecchio continente abbiamo perseguito un impoverente rigore mentre negli Stati Uniti, presi a riferimento proprio di quel libero mercato, la spesa pubblica, finanziata con il debito, ha contribuito a sorreggere il primato economico mondiale, in larga misura proprio a discapito dell’Europa.
A questo elemento se ne aggiunge un secondo che ha a che fare con la narrazione pubblica, artificialmente costruita. Mentre lo scontro tra repubblicani e democratici fa paventare il default degli Usa, i titoli di Stato americani continuano a essere considerati un bene rifugio e attirano capitali da tutto il mondo con tassi di interesse allettanti, pagati con un dollaro che lo stesso rischio default dovrebbe indebolire, senza in realtà che ciò avvenga.
Le tensioni, molto apparenti, sul debito federale scatenano piccole scosse sismiche che, senza mettere in discussione la tenuta dei Treasury bond, impongono un rialzo dei rendimenti, destinato a giustificare un rialzo dei tassi di interesse in grado di remunerare meglio i possessori del debito Usa, a cominciare dalle grandi banche come JP Morgan, di proprietà dei grandi fondi. In pratica, l’acceso dibattito al Congresso è considerato dai cosiddetti mercati una “sceneggiata” tutta politica, destinata a ricomporsi con un diverso rapporto di forza tra i due partiti contendenti: la politica Usa gioca con il fuoco, ma nessuno ci crede veramente e i player finanziari utilizzano la “sceneggiata” in corso per rafforzare il proprio portafoglio, compensando con i rendimenti il deprezzamento del valore dei titoli.
Ma la cuccagna finanziaria sta procedendo anche per altre strade. Da giorni, infatti, sono in corso le scommesse, attraverso i derivati sui titoli di Stato Usa, i cosiddetti credit default swap, contro il debito americano. In sintesi, vengono vendute le “assicurazioni” contro il rischio di fallimento del debito statunitense, a prezzi sempre più alti, garantendo ricchi rendimenti agli scommettitori che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono direttamente interessati al debito Usa.
Per essere chiari: il debito Usa esplode e nessuno crede realmente al default ma le scommesse sul fallimento consentono benefici da centinaia di miliardi agli speculatori. Lo show della finanza che purtroppo ha i caratteri dell’incubo distopico è in grado di coinvolgere persino il Congresso più influente del Pianeta, adoperandolo per i propri fini. Solo negli Stati Uniti, così, la proliferazione del debito pubblico finanzia una maggiore competitività internazionale del sistema Paese e si associa allo sviluppo dell’iperfinanza, pronta a scommettere su ogni titolo e su ogni indice, avendo la certezza di essere più forte della politica.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
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