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Interni / Intervista

Che cosa si nasconde sotto la patina “carina” delle nostre città

La Rambla di Barcellona © Igor Ferreira

Nel suo “Manuale per una gentrificazione carina” il sociologo Giovanni Semi analizza la “distopia illuminata” promossa da banche, gruppi multinazionali e immobiliari con il placet delle amministrazioni locali che punta a riqualificare i tessuti urbani. Un processo che mette al centro gli interessi privati, a scapito di quelli collettivi

Il birrificio artigianale ha preso il posto del calzolaio. Una pizzeria biologica e un ristorante vegano hanno preso il posto, rispettivamente, del fruttivendolo e del negozio di cartoleria. Mentre la vecchia fabbrica abbandonata è stata trasformata in un ostello di lusso.

Non c’è città italiana (o europea) che negli ultimi anni non si sia rifatta, almeno in parte, il look. Il futuro è già qua, si chiama “gentrificazione” e, per quanto faccia rima con “riqualificazione”, è un fenomeno che mira a nascondere la povertà e il disagio sotto al tappeto di città che si somigliano in modo sempre più sconcertante.

Giovanni Semi, docente di Sociologia delle culture urbane e Sociologia presso l’Università di Torino, ha analizzato questo fenomeno in un dissacrante “Manuale per una gentrificazione carina” pubblicato ad agosto 2023 per i tipi di Mimesis. Un volumetto dal tono ironico da cui emerge un’analisi puntuale di questa “distopia illuminata” promossa da banche, multinazionali e gruppi immobiliari con il placet di amministrazioni locali incapaci di immaginare una realtà che possa rimettere il bene pubblico al centro del discorso.​​​​​​​

Professor Semi, come è nato questo libro?
GS
Rappresenta la continuazione di “Gentrification. Tutte le città come Disneyland?” un saggio pubblicato nel 2015 (il Mulino) al termine di un lungo lavoro di ricerca e studio. Ho continuato a presentarlo e a parlarne in pubblico ma la mia impressione era che, nell’ambito del più ampio dibattito sulla rigenerazione urbana, il tema della gentrificazione venisse considerato una sorta di rumore di fondo. Mi sono quindi chiesto come fare per urlare più forte e ho deciso di scrivere un testo che facesse leva sul grottesco e del paradosso (due registri che mi appassionano). È un modo per continuare la stessa battaglia con armi diverse.

Del suo libro mi ha colpito la scelta di contrapporre il concetto di bello a quello di carino. Due termini apparentemente simili ma che, nella sua lettura, sono in realtà molto diversi.
GS Si è consolidata l’idea che la bellezza sia un descrittore neutro e abbia sempre un valore positivo e che quindi imporla sia un valore universale. Ma da sociologo sono invece portato a chiedermi quale significato attribuiamo alla bellezza, come la descriviamo. In realtà nelle macchine di rigenerazione non c’è nemmeno la volontà di farlo perché un cittadino può trovare bello qualcosa che l’architetto trova osceno, che è ancora diverso da quello che pensano il Comune o i finanziatori del progetto. In altre parole: tutti si riempiono la bocca della parola “bellezza” purché non se ne parli davvero. Il “carinismo” è la traduzione di questa imposizione nelle politiche: l’ossessione a vivere in ambienti che vengono considerati “carini” perché sono sufficientemente sofisticati ma non impegnativi, puliti ma non completamente asettici. Il risultato sono città “morbide” in cui le persone non sono mai poste di fronte a nulla di straniante e dove non c’è mai il rischio di incontrare veramente l’altro.

Le macchine della rigenerazione urbana creano ambienti sufficientemente “soft” da non sollevare mai dubbi su quello che c’era prima, sui meccanismi che hanno prodotto i cambiamenti. Per questo, a mio avviso, il “carinismo” è un dispositivo estremamente violento e tipico del capitalismo contemporaneo, che deve costantemente dissimulare la propria natura: tutti sanno che il capitalismo è speculazione, ma questa cosa non si può dire perché è volgare. Il libro vuole essere un tentativo di svelare questo meccanismo.

Un edificio nel quartiere di Shoreditch, nell’East End di Londra. Quest’area è stata recentemente interessata da un processo di gentrificazione © Ambitious Studio – Rick Barrett – Unsplash

Da questa sua riflessione il primo pensiero che mi viene in mente sono le principali città turistiche europee, sempre più simili tra loro tra ristoranti tipici, negozi di souvenir e luoghi “instagrammabili”. Anche questa è una conseguenza del “carinismo”?
GS Su questo tema ha scritto molto l’antropologo urbano Ulf Hannerz, secondo cui il turismo contemporaneo è una macchina creata appositamente per evitare al turista qualsiasi shock culturale, che invece è esattamente quello che cercano i viaggiatori. Chi viaggia lo fa precisamente per provare queste esperienze di spaesamento, per scoprire che negli altri Paesi ci sono modi di mangiare, di comportarsi e di relazionarsi diversi dal proprio. Il turista contemporaneo, invece, non vuole nulla di tutto questo: vuole mangiare e trascorrere del tempo in posti carini. E questo è talmente entrato nella nostra esperienza urbana che anche le città si sono adeguate a questa logica di sfruttamento tipicamente capitalistico che è il turismo internazionale. Non c’è differenza tra andare a Rotterdam, a Varsavia o a Lille e da un punto di vista culturale è un disastro perché ha steso un manto omogeneo su città che si erano sviluppate in maniera molto diversa tra loro, dando vita a storie urbane peculiari che oggi rischiamo di perdere.

Quali sono le caratteristiche essenziali di una gentrificazione “carina”? Quali sono le parole che dovrebbero far suonare un campanello d’allarme tra gli abitanti di un quartiere su cui incombe un progetto di rigenerazione urbana?
GS Sono i diversi descrittori post-politici (ovvero quel tipo di lessico che non può essere soggetto a nessuna forma di critica) che vengono utilizzati dalle macchine di rigenerazione urbana. Uno di questi è bellezza, come abbiamo già detto. Poi c’è la dimensione “green”, che probabilmente è quella più violenta tra quelle a cui stiamo assistendo in questo momento storico: nella rigenerazione ormai è tutto “green”, persino i rendering. La terza parola che dovrebbe far nascere preoccupazione è partecipazione. È importante chiedersi da chi è partecipato un progetto di rigenerazione urbana e soprattutto, in quale fase: gli abitanti del quartiere vengono coinvolti attivamente in quella iniziale o viene chiesto loro solo di scegliere il colore delle panchine? Un terzo termine è “smart”, chiediamoci chi si avvantaggia di una svolta tecnologica e dove vanno a finire i dati che vengono raccolti. In conclusione, chi vede questi descrittori elencati a colori scintillanti su un progetto di rigenerazione urbana che interessa il suo quartiere dovrebbe preoccuparsi.

I Navigli a Milano © siavash, unsplash

Già oggi più della metà della popolazione globale vive nelle città e questo numero è destinato ad aumentare. La riqualificazione degli spazi abbandonati sarà un passaggio necessario per accogliere numeri sempre crescenti di abitanti, come fare per evitare i processi di gentrificazione?
GS Da un lato è vero che l’urbanizzazione procede in maniera lineare se non esponenziale: è l’intero Pianeta che si urbanizza, cresce il numero di quanti si trasferiscono nelle città e queste a loro volta continuano a espandersi. Poi però ci sono delle situazioni particolari, come quella italiana dove osserviamo un calo demografico importante, ma c’è bisogno di più abitazioni perché si sono ridotte le dimensioni dei nuclei familiari che in passato erano formati da quattro, cinque, sei persone. Oggi ci sono gli anziani soli, le coppie senza figli, tanti single. Per questo è urgente riflettere su come ricondizionare e modificare tutti quegli alloggi costruiti tra gli anni Sessanta e Settanta per un modello di famiglia che già stava scomparendo e che oggi non esiste più da almeno vent’anni. Bisogna avere il coraggio, la forza e gli investimenti per rimettere mano ad alloggi di 120-150 metri quadri in cui magari vive una persona sola. Questa situazione è ingestibile anche da un punto di vista economico ed energetico.

In città come Milano e Torino c’è un numero elevatissimo di case e appartamenti vuoti e nel frattempo continuiamo a costruire villette o piccoli condomini: questa cosa è anti-ecologica, anti-economica e anti-storica e bisognerebbe lavorare seriamente per cambiare questa situazione. Ma per farlo serve un intervento politico radicale che, ad esempio, dica che non è legittimo tenere alloggi vuoti. In un contesto in cui le disuguaglianze abitative continuano ad aumentare così come il numero di persone in condizione di povertà il fatto che ci siano numeri enormi di alloggi vuoti mentre si continua a costruire nuovi edifici alimentando il consumo di suolo è semplicemente inaccettabile.

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