Diritti / Attualità
Respingimenti in mare, un nuovo ricorso alla Corte europea contro l’Italia
Il 6 novembre 2017 il nostro Paese avrebbe contribuito a respingere in Libia 47 migranti durante il naufragio di un gommone al largo delle coste libiche. L’accusa presentata ai primi di maggio a Strasburgo dagli avvocati di 17 sopravvissuti al drammatico “scontro” tra la Guardia costiera di Tripoli e l’ong tedesca “Sea Watch”
Diciassette cittadini stranieri, sopravvissuti a un naufragio nel Mediterraneo il 6 novembre 2017, hanno presentato un ricorso contro l’Italia alla Corte europea per i diritti umani (Cedu) di Strasburgo. Tra i ricorrenti ci sono i genitori di due bambini morti durante l’incidente e due cittadini nigeriani che, dopo essere stati soccorsi dalla Guardia Costiera libica, sono stati rinchiusi in un centro di detenzione per migranti dove hanno subito abusi e violenze. Dopo due mesi di prigionia, hanno aderito a un programma di rimpatrio assistito e, una volta rientrati nel Paese d’origine, si sono uniti ad altri 15 superstiti che si trovano in Europa e hanno presentato ricorso.
“Abbiamo rilevato numerose violazioni dei diritti umani -spiega l’avvocato Loredana Leo di Asgi (Associazione giuridica per gli studi sull’immigrazione)-. Per tutti i ricorrenti c’è la violazione del diritto alla vita: sono stati tutti messi in pericolo e i figli di due ricorrenti sono morti. C’è poi la violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, per coloro che sono stati detenuti in Libia, torturati e persino ridotti in schiavitù. Inoltre contestiamo al governo italiano la violazione del principio di non refoulement”.
La vicenda dei 17 superstiti del naufragio del 6 novembre scorso, infatti, si inscrive nel quadro più ampio degli accordi tra Italia e Libia del Memorandum d’intesa del febbraio 2017. A intervenire sulla scena del naufragio sono la nave dell’ong tedesca Sea-Watch e la “Ras Jadir” della Guardia Costiera libica, coordinate dal Centro di Coordinamento Marittimo (MRCC) della Guardia costiera di Roma. La “Ras Jadir” è una delle navi donate dal governo italiano i libici nel maggio 2017 e fra i 13 uomini a bordo, ben otto sono stati addestrati nell’ambito dell’operazione europea contro il traffico di esseri umani “Eunavfor Med”.
Come rileva il report “Mare Clausum” curato da Forensic Oceanography (parte dell’agenzia Forensic Architecture con sede all’università Goldsmith di Londra) che ha ricostruito in maniera dettagliata l’incidente “questi elementi rendono tale incidente paradigmatico delle nuove drastiche misure adottate dall’Italia e dall’Unione europea per arginare a ogni costo il fenomeno migratorio in tutto il bacino del Mediterraneo”. Secondo i ricercatori, attraverso gli accordi politici e le varie forme di sostegno messe in atto a favore della Guardia Costiera libica, Italia e Unione europea “hanno preso a esercitare un controllo sia strategico che operativo”. In tal modo, ai militari libici vengono affidate operazioni di “respingimento per procura”. Un tentativo, si legge nel report, “di aggirare una delle pietre miliari del diritto internazionale dei rifugiati, il principio di non refoulement”. Una prassi che, secondo le stime di Charles Heller, co-fondatore di Forensic Oceanography, ha visto la Guardia Costiera di Tripoli intercettare e riportare in Libia oltre 20mila persone. “Inoltre c’è una correlazione statistica tra l’aumento del tasso di intercettazione da parte della Guardia costiera libica e l’aumento del tasso di mortalità dei migranti tra la seconda metà del 2017 e l’inizio del 2018”, spiega ancora Heller.
Oltre alla documentazione prodotta da Forensic Oceanography, sono stati analizzati sedici diversi episodi di soccorso in mare. Nella maggior parte dei casi le autorità italiane, dopo essere state informate della presenza di imbarcazioni in difficoltà, hanno trasferito queste informazioni alla Guardia costiera libica, la quale ha rivendicato il coordinamento delle operazioni SAR, mentre alle imbarcazioni delle Ong è stato chiesto di rimanere in attesa. “In tal modo –denuncia il report “Mare Clausum”- l’MRCC ha contribuito all’intercettazione dei migranti e a farli riportare in Libia”.
Sulle 130-150 persone a bordo del gommone partito nel novembre 2017 dalle coste libiche 59 sono stati soccorsi dalla Sea-Watch, almeno venti sono morti affogati, mentre altri 47 sono stati riportati in Libia. “Chi è salito a bordo della motovedetta libica è stato picchiato, questo modus operandi non poteva non essere conosciuto alle autorità italiane. Così come non può essere sconosciuto il livello di violenze e di abusi che si compiono nei centri di detenzione libici -spiega l’avvocato Loredana Leo-. Quello che contestiamo allo Stato Italiano è una responsabilità diretta nell’operazione di salvataggio in sé e nel coordinamento delle operazioni. Oltre al fatto di effettuare dei respingimenti per procura per mezzo della Guardia Costiera libica, in violazione del principio di non refoulement”.
Il ricorso è stato presentato alla Cedu lo scorso 3 maggio ed è stato redatto dal Global Legal Action Network (Glan) e dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) con il supporto di Arci e della Yale Law School’s Lowenstein International Human Rights Clinic. “I tempi saranno abbastanza lunghi –conclude Loredana Leo-. Ora dobbiamo aspettare la prima valutazione della Cedu, che valuterà l’ammissibilità o meno del ricorso. Per avere una sentenza potrebbero volerci anche due anni”.
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