Diritti / Opinioni
Carola Rackete e le crepe della democrazia
Il gesto della comandante di Sea Watch 3 è il segnale di un’emergenza ancora in corso: il ricorso delle autorità a condotte “estreme”. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci
Quando Carola Rackete, al comando della Sea Watch 3, nel giugno scorso ha rotto gli indugi, violato i divieti dettati dal (precedente) governo italiano e condotto in porto a Lampedusa l’imbarcazione carica di naufraghi, si è giustamente evocata la figura di Antigone, per rimarcare il valore morale del suo atto di disobbedienza. La giovane comandante tedesca, nel mettere piede in Italia, ha ricevuto un trattamento pesante: è stata arrestata e insultata (anche da un ministro). E tuttavia attorno a lei si è presto condensato un forte apprezzamento per la nobiltà del suo gesto, da collocare nella lunga, gloriosa tradizione della disobbedienza civile. La capitana della Sea Watch ha violato le leggi per restare fedele a più importanti vincoli morali e civili: la salute dei naufraghi a bordo, la loro dignità, il diritto di approdo nel porto vicino più sicuro.
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La popolarità acquisita da Rackete può essere però pericolosa, perché rischia di trasformare una condotta esemplare in un caso puramente personale e mediatico. La vicenda va vista da un’altra angolatura. Il gesto della comandante è il segnale di un’emergenza in corso, cioè il frequente ricorso delle autorità a norme e condotte di carattere estremo: leggi o parti di leggi in palese contrasto con la Costituzione (specie in materia di immigrazione, ma non solo), diritti fondamentali accantonati in nome di pretese esigenze di sicurezza (vedi i frequenti sgomberi di campi rom e palazzi sfitti occupati da persone senza casa) o per affermare l’equivoco concetto di decoro urbano (innumerevoli le ordinanze comunali di limitazione della libertà di circolazione per determinate categorie di persone). In simili circostanze il sistema di limiti e garanzie istituito a protezione dei diritti fondamentali ha dimostrato d’essere vacillante, non fosse che per lo scarto di tempo che passa fra l’emanazione di una legge incostituzionale e la sua eventuale cancellazione; oppure, su un altro piano, per la difficoltà di far valere in sede politica e giudiziaria i diritti di base affermati dalla Costituzione ma disattesi (come il diritto alla casa). La disobbedienza civile è una forma radicale di esercizio della cittadinanza attiva e non è facile da praticare, perché richiede una forte persuasione personale e anche la capacità, in chi la pratica, di accettare tutti i rischi del caso, a cominciare dalle conseguenze giudiziarie. Carola Rackete, violando quella legge, ha reso evidente l’ingiustizia di alcune norme sull’immigrazione in vista di una nuova e maggiore forma di legalità, da raggiungere cambiando leggi ingiuste. Lo stesso hanno fatto, con minore clamore, altri naviganti nel mar Mediterraneo; un cardinale a Roma riallacciando abusivamente i servizi elettrici in un palazzo occupato (con biglietto da visita lasciato presso i sigilli strappati); gli attivisti che hanno fatto da “passeur” per aiutare molti migranti a raggiungere la Francia; le parrocchie, le associazioni, le famiglie che aiutano chi è stato espulso dal sistema di accoglienza degli immigrati. E così via. La disobbedienza civile sta diventando una necessità al cospetto delle crepe aperte nel tessuto delle nostre democrazie. Carola Rackete non è un’eroina e in fondo non ha fatto niente di speciale, se non attenersi a un principio di moralità che si vorrebbe accantonare una volta per tutte, in favore di un modello di democrazia limitata, che raziona i diritti e relega i cittadini al ruolo di comparse. Parafrasando don Milani: la disobbedienza civile è la necessaria virtù dei nostri tempi.
Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.
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