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Cultura e scienza / Intervista

Bolle, miraggi e malintese ossessioni nell’era della polarizzazione social

© Amy Shamblen - Unsplash

Nel recente saggio “La correzione del mondo” il giornalista Davide Piacenza ha indagato la cancel culture, il politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata. Fatti che escono da schermo e tastiera e trasformano le relazioni tra le persone. Discuterne è importante per non soccombere all’incomunicabilità

C’è una guerra che si sta combattendo nel mondo virtuale dei social network e che, sebbene non lasci morti e feriti sul campo, sta comunque provocando vittime e causando danni. Sono le cosiddette culture wars (guerre culturali), ovvero gli scontri tra gruppi sociali per l’affermazione dei propri valori di riferimento. “Ma oggi si invocano perlopiù per fornire una cornice concettuale alle divisioni, alle assurdità, alle polarizzazioni e al caos a cui siamo esposti nel mondo che discute di rappresentatività culturale, identità ‘politicamente corretto’ e affini”, scrive il giornalista Davide Piacenza nella prefazione del libro “La correzione del mondo” (Einaudi, 2023).

Un saggio che mette al centro tre concetti apparentemente slegati tra loro: la cancel culture (termine utilizzato sempre più spesso anche dai media italiani, talvolta a sproposito), il politicamente corretto, e le ricadute che le piattaforme social stanno avendo su una società sempre più frammentata in cui sono gruppi di opinione sempre più ristretti (a volte anche una sola persona) a definire quali comportamenti e quali espressioni siano “giusti” e quali invece sanzionare.  

Piacenza come è nato il libro “La correzione del mondo”?
DP Ha avuto inizio da un interesse di tipo culturale e al tempo stesso personale. Mi sono avvicinato a questi temi un po’ per caso: come giornalista mi sono sempre occupato di politica, attualità. Con l’inizio della presidenza Trump negli Stati Uniti, nel 2017, le cosiddette “guerre culturali” e il confronto serrato su una serie di simboli e termini sono diventate sempre più centrali nel dibattito pubblico fino all’assalto al Campidoglio di Washington il 6 gennaio 2021, quando queste nicchie nate e cresciute online sono diventate un problema molto reale. Così ho deciso di iniziare ad approfondire il tema e presto mi sono reso conto che i social network non erano lo spazio adatto per discuterne perché qualsiasi affermazione poteva essere presa, smontata e rimontatata. Mettendomi in bocca parole che non avevo mai scritto: ho deciso quindi di utilizzare un’altra piattaforma e ho dato vita alla newsletterCulture wars” con l’obiettivo di spiegarmi meglio e avere delle conversazioni reali. Il libro è stato un passo successivo.

Che cosa si intende per cancel culture?
DP Sui social network termini come cancel culture o politically correct vengono usati come una sorta di passepartout: ci sono persone che li considerano un sinonimo dell’abbattimento indiscriminato delle statue, altre una sorta di “Spectre” progressista che vuole smantellare la tradizione occidentale e cancellare Omero dai programmi di studio. Queste espressioni sono state “ingegnerizzate” dalla destra americana e sono diventate estremamente polarizzanti. Personalmente, quando utilizzo questi termini, mi riferisco a quella tendenza a cercare di rimuovere, senza approfondimento, tutto quello che non si vede come allineato a un’interpretazione abbastanza limitata ad alcuni set valoriali e morali. Una morale, peraltro, molto occidentale, figlia di un set di idee nate nell’accademia statunitense.

Parlando dell’impatto della cancel culture sul dibattito pubblico statunitense, l’ex presidente Barack Obama ha stigmatizzato il fatto che su queste piattaforme si privilegia il fatto di scontrarsi attorno a un singolo tema o puntare il dito contro comportamenti e affermazioni altrui senza cercare possibili compromessi su quei temi che, invece, possono accomunare. Che ruolo hanno le nuove tecnologie, penso in particolare Twitter e Instagram, nel polarizzare questo dibattito?
DP Quando frequentiamo i social network, ciascuno di noi viene “etichettato” all’interno di quella che in gergo definiamo la “bolla” delle nostre relazioni composta prevalentemente da persone che in qualche modo ci assomigliano. Ma chi gestisce queste piattaforme ha bisogno di massimizzare le interazioni: che non si producono sui nove argomenti su cui io e te siamo d’accordo, ma su quell’unico su cui siamo in disaccordo. Chiunque abbia un’esperienza media in termini di coinvolgimento e tempo speso a parlare di politica su Twitter o Facebook sa benissimo che ci sono una miriade di scontri tra persone che tutto sommato sul 90% delle questioni la pensano allo stesso modo. Questo è un aspetto molto esemplificativo di come i social network riescono ad avere effetti sia sul nostro modo di comunicare, sia sulla nostra idea di politica.

Questa dinamica a mio avviso è estremamente deleteria anche perché cede il ruolo di gatekeeper dell’informazione a influencer che decidono che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. E che traggono la linfa della propria autorevolezza proprio dal puntare il dito contro qualcuno che non sta facendo, a loro avviso, nel modo giusto. E lo troveranno sempre.

Però il numero di persone realmente attive su queste piattaforme è contenuto. Come è possibile che nicchie oggettivamente piccole siano in grado non solo di orientare il dibattito pubblico, ma anche di avere impatti reali sulla vita delle persone?
DP Negli Stati Uniti circa il 24% della popolazione è iscritto a Twitter e di questi, secondo l’ultimo Digital news report del Reuters’ institute, gli utenti attivi sono circa il 20%. Sono questi gli utenti che orientano il dibattito all’interno del Paese e sono generalmente coloro che hanno una scolarizzazione più elevata, lavori meglio pagati, solitamente vivono nelle città sulla costa e così via.

Su molte piattaforme social si legge spesso l’invito ad ascoltare le persone che fanno parte delle comunità marginalizzate, a cedere loro la parola. A mio avviso pensare che Twitter o Instagram offrano una vera rappresentatività e offrano un’occasione per far parlare chi non lo aveva potuto fare in precedenza è miope: perché questo non sta succedendo. Sono più o meno sempre le stesse persone a prendere la parola. Il filosofo statunitense di origine nigeriana Olúfẹ́mi Táíwò ha affrontato questo tema nel saggio “Beeing in the room privilege”: il fatto di essere nella “stanza” di Twitter significa che hai più tempo a disposizione, un reddito più elevato, il  tempo per stare sui social in maniera attiva tutte queste caratteristiche ti rendono automaticamente non rappresentativo delle minoranze a cui dici di voler dare voce.

“Attivista” è un termine che compare sempre più spesso nelle biografie Twitter e Instagram di personaggi più o meno noti. Quali impatti ha questo attivismo online su quello del mondo reale?
DP Su questo aspetto posso solo provare a fare delle ipotesi. Sempre il Digital news report ci dice che tra le generazioni più giovani gli influencer attivi su Instagram e TikTok hanno un’influenza maggiore rispetto ai giornalisti. A mio avviso è chiaro che chi cresce con queste prospettive dia per scontato che avere una ricaduta sul reale significhi anzitutto pubblicare una storia su Instagram (spesso parlando di sé e delle proprie esperienze) e che la politica sia qualcosa che si può ridurre a qualche tweet.

Inoltre, paradossalmente, guardando a certe nicchie e alle dinamiche che muovono alcuni gruppi di pressione organizzati online (i cosiddetti influencer attivisti) sembra di essere ritornati a un’idea thatcheriana della società, che mette al centro l’esperienza individuale. E che ha completamente accantonato l’idea che la società sia costituita da legami collettivi, in cui è importante trovare compromessi e provare a convincere (almeno in parte) chi non la pensa come noi usando gli strumenti della persuasione. Non so quali saranno le ricadute a lungo termine di questa situazione, ma mi viene da dire che non saranno buone.

L’Italia come si pone rispetto a questo scenario?
DP Quando questi discorsi attorno alla cancel culture o al politicamente corretto tracimano nel nostro Paese sono sempre un po’ grotteschi. Oggi i discorsi e i temi di cui abbiamo parlato sono di fatto limitati a un pugno di utenti su Instagram e su Twitter, ma in futuro inevitabilmente si allargheranno a un pubblico più ampio. Sarebbe bello riuscire ad affrontare questi cambiamenti con la consapevolezza di quello che hanno portato altrove perché il rischio è quello di arrivare a una cacofonia di malintesi e cacce alle streghe o, peggio ancora, l’auto-arrogarsi ruoli da portavoce che non ci competono. Ma non credo riusciremo a farlo.

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