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La salute mentale degli italiani, tra social network e poche risorse

© Emily Underworld, unsplash

Nel nostro Paese si parla sempre più spesso e apertamente del benessere psichico, anche tramite le piattaforme digitali. Il rischio, però, è che il messaggio resti in superficie mentre il sistema pubblico soffre di sottofinanziamento. Lo mostra bene l’inchiesta “Il fronte psichico” a cura della giornalista Jessica Mariana Masucci

L’ultimo personaggio dello spettacolo ad aver parlato pubblicamente della propria salute mentale è la conduttrice televisiva Andrea Delogu: “In questi giorni -ha scritto il 20 luglio su Twitter- ‘festeggio’ i dieci anni di analisi. All’inizio non potevo permettermelo e ho fatto i debiti, ma sentivo che era l’unica strada per salvarmi. Avevo ragione. Auguri a me!”. Dalla politica ai social network, passando per i personaggi dello sport e dello spettacolo negli ultimi anni -in particolare dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19-, si parla sempre più spesso e apertamente della salute della nostra mente e dell’importanza di prendersene cura, analogamente a quanto facciamo per quella del nostro corpo.

“All’estero il discorso pubblico sulla salute mentale è più sdoganato rispetto a quanto avviene nel nostro Paese. Pensiamo ad esempio all’ex campione olimpico Michael Phelps che già nel 2017 ha parlato apertamente dei propri problemi di ansia e depressione nel documentario ‘Angst’. In Italia abbiamo iniziato ad assistere a questo cambiamento solo di recente”, spiega Jessica Mariana Masucci, giornalista freelance e autrice del saggio “Il fronte psichico. Inchiesta sulla salute mentale degli italiani” (Nottetempo, 2023). Un volume che in circa duecento pagine analizza diverse sfaccettature di questo complesso e delicato argomento dando voce a psicologi, psichiatri, operatori sanitari ed esperti di comunicazione. “L’Italia di fine febbraio 2020 stava, timidamente, iniziando a prendere le misure della questione [della salute mentale], ma la pandemia ha catalizzato bruscamente questo processo -scrive Masucci nella prefazione-. Dal 2018 al 2021, sul territorio italiano il numero medio mensile di ricerche su Google contenenti l’espressione ‘salute mentale’ è quasi triplicato”.

Masucci, questa discussione sempre più aperta su un tema così complesso è positiva?
JMM
La questione non è tanto il quanto se ne parla ma il come. Va benissimo che se ne discuta maggiormente e più apertamente, far crescere la consapevolezza che è importante prendersi cura di sé con terapie, se necessario, con il supporto di professionisti e con stili di vita adeguati. Bisogna però stare anche attenti a non rendere glamour un disturbo mentale: un rischio che si corre soprattutto sui social media dove la diagnosi rappresenta un modo per sentire di appartenere a un determinato gruppo sociale.

Rispetto al “come” parlare di salute mentale, ci sono degli esempi particolarmente significativi?
JMM Nel libro ho intervistato Tiziana Mettitieri, coordinatrice dell’ambulatorio di Neuropsicologia presso l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, che è anche un’attenta osservatrice della comunicazione su questo tema. Ha preso a riferimento il messaggio della tennista giapponese Naomi Osaka che nel 2021 ha rinunciato a gareggiare agli Us Open (quarto e ultimo dei tornei del Grande slam) sottolineando in modo particolare il fatto che vale la pena fermarsi. Possiamo riassumerlo così: “Non ti dico che ne usciremo, ma vale la pena prendersi cura di sé”. Mentre se guardiamo a quello che succede in Italia, spesso manca questa maturità di approccio.

Nel dicembre 2021 il Governo Draghi ha introdotto il “Bonus psicologo”, che ha riscosso ampia adesione. Però l’Italia nel 2020 ha speso per la salute mentale solo il 3% del budget nazionale per la sanità. E i Dipartimenti per la salute mentale, per come sono finanziati attualmente, sono in grado di rispondere correttamente solo al 55,6% del fabbisogno assistenziale stimato. Come si conciliano questi due aspetti?
JMM Non stanno insieme. Prendiamo ad esempio la Campania, una delle Regioni con la spesa più bassa per la salute mentale, ma anche una delle prime ad approvare ad agosto 2020 la legge per istituire la figura dello psicologo di base. Due questioni da avere ben chiare: se hai un sistema che potenzialmente può funzionare è assurdo non potenziarlo e, ad esempio, lasciare i centri di salute mentale sguarniti e sotto-finanziati. D’altra parte, dobbiamo stare attenti a non cadere in un riduzionismo economico: le risorse finanziare sono fondamentali ma è altrettanto importante rivedere l’efficacia degli interventi offerti dal sistema. E poi occorre considerare veramente la salute mentale come un aspetto di salute pubblica da garantire a tutti i cittadini nei diversi ambiti della vita quotidiana. Penso ad esempio al tema del lavoro.

Può spiegare meglio?
JMM Affrontare il problema della disoccupazione solo con le politiche attive, senza tenere in considerazione la dimensione psicologica di portare in alcuni casi al fallimento delle prime. Questi temi vanno collegati tra loro ed è un aspetto da tenere in considerazione. Una persona che ha perso il lavoro ed è disoccupata da anni può cadere in depressione: per chi si trova in questa situazione è più difficile rimettersi in gioco per ripartire e un percorso di reinserimento lavorativo potrebbe fallire.

Nel suo libro evidenzia anche come il lavoro possa essere fattore scatenante di problemi legati alla salute mentale.
JMM Questo dipende innanzitutto dalla sua qualità: se è un lavoro stabile o precario, se il compenso è adeguato o meno. Ma anche dall’ambiente in cui le persone trascorrono le proprie giornate: dopo il lockdown molte aziende hanno risposto alla richiesta di maggiore attenzione alla salute mentale da parte dei loro dipendenti offrendo loro supporto psicologico o consulenze con coach specializzati. Ma stiamo parlando di una minoranza: questa non può essere la sola risposta, serve un vero cambiamento della cultura del lavoro. Da un sondaggio dell’autunno 2022 commissionato dal servizio di consulenza psicologica Mindwork è emerso che il 62% degli intervistati ha dichiarato di aver sperimentato almeno una delle componenti della sindrome da burnout. E il 44% giudica inefficaci le iniziative promosse dall’azienda per ridurre lo stress.

Social media come Instagram o TikTok stanno diventando sempre più luoghi in cui si condividono contenuti legati alla salute mentale. Che ruolo stanno avendo nel cambiare il discorso pubblico in materia?
JMM Le generazioni più giovani -quelle che fanno un maggiore ricorso a queste piattaforme- anche quelle maggiormente aperte al cambiamento e hanno meno stigmi nei confronti della salute mentale. Vale la pena osservare però che ci sono disturbi di cui si parla con maggiore facilità (ansia e depressione sono ormai sdoganate) mentre si parla molto meno di quelli più complessi e meno comuni. Così come si parla pochissimo delle dipendenze. Sui social bisogna stare anche attenti a non cadere nell’errore delle cosiddette check-list: una logica secondo cui se “spunti” una serie di sintomi ti autoconvinci di avere quel disturbo mentale. Questo meccanismo non si trova solo sui social ma questi lo amplificano molto. Tali problemi derivano anche da una scarsa alfabetizzazione medica di noi italiani, che in parte era emersa già durante la pandemia da Covid-19 e si vede anche in questo ambito.

In Italia ogni anno vengono consumate 49 milioni di confezioni di psicofarmaci; 36,5 milioni sono antidepressivi e di queste solo 565mila arrivano ai pazienti da ospedali o centri di salute mentale. Il resto sono pillole acquistate in farmacia su prescrizione medica, che però non è firmata da uno psichiatra. C’è un problema di appropriatezza descrittiva?
JMM Sì ed è un problema enorme, che peraltro i medici e gli psicologi denunciano da anni. In parte è dovuto a una questione culturale: chi ha un’età abbastanza avanzata ha una scarsa propensione a rivolgersi a uno psichiatra, ma preferisce farsi prescrivere un farmaco che può assumere a casa senza che nessuno sappia della sua condizione. Possiamo sperare che questa situazione cambi con l’avvento di nuove generazioni maggiormente disposte a rivolgersi a specialisti della salute mentale. Ma questo cambiamento non deve ricadere solo sui cittadini: serve maggiore attenzione da parte del sistema sanitario per rendere più facile l’accesso a questi specialisti. E qui torniamo al tema del sottofinanziamento.

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