Diritti / Intervista
“Berta Soy Yo”: il film sulle lotte di Berta Cáceres e sull’Honduras degli ultimi 13 anni
Intervista a Katia Lara, regista del documentario sulla leader indigena assassinata nel Paese nel marzo 2016 per la sua battaglia contro un progetto idroelettrico che avrebbe devastato il Río Blanco. Uno sguardo sulla fine della democrazia. L’opera è uscita in estate e ha riscosso successo nonostante i tentativi di boicottarla
Nell’ultima scena di “Berta Soy Yo” (Berta sono io) Bertita e Laura, due delle tre figlie della leader indigena lenca Berta Cáceres, assassinata in Honduras nel marzo del 2016, nuotano nel fiume Gualcarque, nei pressi di Río Blanco. Berta è stata uccisa per aver guidato quella comunità, affiliata all’organizzazione che aveva fondato nei primi anni Novanta, il COPINH, nella battaglia contro il progetto idroelettrico Agua Zarca che avrebbe trasformato il corso del fiume. “Quando le ho viste e filmate, il giorno in cui abbiamo portato le ceneri della madre lungo le rive del fiume, per disperderle, ho capito che quella sarebbe stata la scena finale del lungometraggio a cui stavo lavorando”, racconta ad Altreconomia Katia Lara, regista del documentario, il primo a essere uscito nei cinema in Honduras, restando in programmazione per un mese, grazie al successo di pubblico e nonostante i tentativi di boicottarlo. “Fu un momento magico, altamente simbolico: continuavano a nuotare controcorrente, come la madre”, ricorda la regista, che aveva incontrato Berta il primo marzo 2016, il giorno prima che venisse assassinata.
Katia, il tuo lavoro restituisce immagini inedite di Berta, che hai filmato a partire dal 2013. Che documentario avevi immaginato inizialmente?
KL “Berta Soy Yo” è nato il giorno del funerale di Berta, a La Esperanza. È nato a casa di sua madre, all’obitorio dov’era stato portato il suo corpo, durante le preghiere che hanno accompagnato la sua “semina”, come la chiama la sua amica Miriam Miranda. Fino a quel momento le riprese che avevo fatto accompagnandola nel suo lavoro facevano parte di un altro progetto, “Entre Objetos”, che racconta la storia di due fratelli esiliati dopo il colpo di Stato del 2009, raccordando le vicende personali dei due protagonisti alle lotte sociali nel Paese, incarnate nelle figure di Berta e della sua amica fraterna Miriam, che è la leader di Ofraneh, l’organizzazione della popolazione nera hondureña. Le questioni territoriali erano una sorta di traccia che accompagnava quel racconto.
Nonostante il titolo, il documentario rappresenta attraverso la storia di Berta un racconto del Paese negli ultimi tredici anni, a partire dal colpo di Stato. È così?
KL “Entre Objetos” è un racconto dall’esilio che anch’io filmavo dall’esilio, dato che avevo abbandonato il Paese per questioni di sicurezza dopo aver girato “Quien dijo miedo”, un documentario sul colpo di Stato del giugno 2009. Oggi mi rendo conto di aver filmato una trilogia, che racconta questo Paese negli ultimi tredici anni, narra le conseguenze del golpe e la fine della democrazia. Se tu ascolti l’analisi politica di Berta dopo la frode esplicita delle elezioni del 2013, potresti traslare quel discorso al 2017, quando lei era stata già uccisa senza che perda d’attualità (entrambe vinte da Juan Orlando Hernandez, ndr).
Il tuo lavoro è uscito in sala nell’estate del 2022, dopo la condanna contro David Castillo, condannato come mandante dell’omicidio. Perché hai voluto aspettare quel momento?
KL Tra le prime riprese e la conclusione del documentario sono passati nove anni. Nel 2020, però, ho scelto di smettere di filmare: ero stanca, ormai tutti gli anniversari sembravano uguali e tutte le udienze in tribunale anche. Era chiaro che tutti volevamo capire come si sarebbe risolto il caso e la condanna di Castillo, che era il presidente della ditta che avrebbe dovuto costruire la diga sul Gualcarque, DESA, ha altre importanti implicazioni. Ad esempio, la convocazione di Jacobo Nicolás Atala Zablah, presidente del Banco de América Central in Honduras, che è stato citato in giudizio e oggi è implicato nel secondo processo che s’è aperto, quello legato alla “fraude sobre el Gualcarque“, cioè alla corruzione che avrebbe portato alla concessione per il progetto idroelettrico. L’obiettivo della famiglia e dell’organizzazione indigena di cui era direttrice, il COPINH, era portare in giudizio e riconoscere i mandanti dell’omicidio, e questo è successo. Determinato il nome di un mandante, questo vincolava gli altri personaggi indicati da Berta quando parlava del suo possibile omicidio. Lì potevo chiudere il racconto. Certo, sarebbe stato meglio assistere a un processo più corto.
Perché è così importante che un documentario hondureño sia trasmesso al cinema?
KL Dopo il colpo di Stato il governo ha finanziato con somme ingenti la produzione di fiction spazzatura, lavori impresentabili, melodrammi e telenovelas, trasmesse al cinema. Per molti, quello è il cinema hondureño. Ma non è così: ho pensato questo lavoro per la sala, la struttura narrativa è quella di un documentario d’autore, con un punto di vista. Sono felice che abbia contribuito ad aprire gli occhi a molti, che si trovino o meno d’accordo con il punto di vista di Berta. “Berta Soy Yo” segna un prima e un dopo, e spero che questo nuovo governo (di Xiomara Castro, la prima donna presidente in Honduras, in carica dall’inizio del 2022, ndr) ci dia l’opportunità di programmare un cinema migliore, sostenga il cine-documentario, contribuisca a portare in sala lavori che diano un apporto alla costruzione di identità nazionale e memoria, per come dev’essere e non come un’espressione del colonialismo, eredità di una Hollywood decadente.
La proiezione del documentario nelle sale della catena Cinemark era aperta da un messaggio in cui la proprietà dei cinema dichiarava la propria indipendenza dai contenuti della pellicola. È normale?
KL È un atto di ipocrisia, qualcosa che non era mai successo prima. Perché non prendono le distanza dai contenuti di un film in cui si uccidono persone, si maltrattano bambini, si sfruttano i cervelli, si stigmatizza il contadino, si maltratta la donna? Il problema è che il documentario accusa direttamente un settore vincolato con il loro mercato di riferimento. Hanno senz’altro subito pressioni.
Tra le tante reazioni al suo lavoro c’è anche un comunicato di Fichosa, una delle principali istituzioni finanziarie del Paese, di proprietà della famiglia Atala Faraj. A noi pare sottolineare il successo del documentario.
KL Per molti, ed è una critica che ricevo spesso, il documentario non serve, non ha capacità di incidere sulla realtà. È ovvio che io penso che il mio lavoro debba contribuire a far riflettere lo spettatore, altrimenti l’opera -che sia fiction o documentario- non ha senso. Faccio questo lavoro da quando ho 17 anni, non saprei cos’altro fare, ma spesso mi sono chiesta se avesse senso mettere tanta energia in questo ambito. Oggi posso rispondere di sì, perché obbligare i presunti mandanti dell’omicidio del personaggio di un documentario a diffondere un comunicato in cui gli Atala Faraj, titolari di Fichosa, prendono le distanze dalla famiglia Atala Zablah. Si tratta di un comunicato diffuso in due versioni, con un paragrafo gli Atala Faraj invitano a “non confondere” la loro famiglia con quella degli Atala Zablah, che ha investito nel progetto Agua Zarca. Un paragrafo soppresso in un secondo momento. Ad evidenziare il successo del mio lavoro però non c’è solo questo: un socio nordamericano s’è ritirato dalla produzione, i giornali hondureñi nei primi giorni di programmazione cancellarono le pagine di programmazione cinematografica, per non dar visibilità al nostro lavoro. Credo di aver realizzato un documentario all’altezza di Berta. Ci siamo presi un rischio scegliendo una produzione indipendente ma adesso dopo un mese nei cinema in Honduras questo racconto farà il giro del mondo: “Berta Soy Yo” è già stato selezionato da sette festival internazionali.
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