Esteri / Reportage
Beit Beirut, una casa per la memoria nel cuore del Libano
In un edificio della capitale dal significato storico, artistico e culturale, una mostra multidisciplinare inaugurata nel settembre scorso invita i libanesi a interrogarsi sul passato e parlare del futuro. Sembrava un’idea folle ma non per Mona Hallak, architetta e attivista per la conservazione del patrimonio artistico e culturale
Un parrucchiere e uno studio fotografico degli anni Sessanta. Una discoteca, un bar e una banca, arredati con uno stile dello stesso periodo. E poi immagini di un porto distrutto, di epoche diverse, circondate da video di manifestazioni di piazza, interagendo con un vortice di luci, suoni e musica.
Tutto ciò ha due cose in comune: la stessa città e lo stesso edificio. Si tratta dell’esibizione “Allo, Beirut?”, un tuffo multisensoriale nella storia della capitale del Libano, ospitata da Beit Beirut, gioiello architettonico e simbolo del travagliato passato del Paese.
Costruito a inizio Novecento, l’edificio Barakat (dal nome della famiglia dei primi proprietari) si trova in un angolo dell’incrocio Sodeco, poco distante dal centro della città. In quel punto, durante la lunga guerra civile (tra il 1975 e il 1991) passava la famosa green line che divideva Beirut in due parti, chiamata così dalla vegetazione spontanea che aveva bonificato un lembo di terra che nessuno osava più calpestare. Divenuto un punto strategico per cecchini di fazioni opposte, l’edificio è sopravvissuto, non solo alla guerra, ma anche al periodo successivo, quando la politica decise di ricostruire fisicamente la nazione facendo tabula rasa di tutto ciò che ne rimaneva.
Allora fare dell’edificio Barakat un museo era considerata da molti un’idea folle, ma non per Mona Hallak, architetta e attivista per la conservazione del patrimonio artistico e culturale. Da poco laureata, si è imbattuta nell’edificio per la prima volta nel 1994. Stupita dalla sua bellezza, ha iniziato da subito un lavoro di ricerca sulle storie di chi vi avesse vissuto e lavorato, intravedendo speranza nel suo sofisticato mix architettonico di divisione e connessione. “L’edificio è una forte rappresentazione simbolica del Libano e di Beirut -racconta Hallak-, perché una connessione molto sottile ci unisce mentre continuiamo a vivere lungo le divisioni”. Da quel momento ha fatto tutto il possibile per salvarlo dalla demolizione e farla diventare appunto Beit Beirut, una “casa” per la città, un luogo intimo dove tutti i libanesi potessero ritrovarsi per costruire una memoria collettiva e sfidare l’amnesia del dopoguerra. Dopo anni di cadute e successi, il progetto “Allo, Beirut?”, il cui titolo risale all’omonima canzone di Sabah, iconica cantante libanese scomparsa pochi anni fa, sta concretizzando il sogno di Mona.
Tutto inizia nel 2010, quando Mona incontra la fotoreporter Delphine Darmency, alla quale mostra alcuni negativi trovati nello studio fotografico al piano terra dell’edificio Barakat. “Quando siamo riusciti a vedere delle persone dietro la pellicola in bianco e nero, siamo rimasti incantate. Mentre io continuavo a lavorare al progetto Beit Beirut, Delphine si è concentrata sulla storia dell’ex hotel Excelsior e della sua discoteca Les Caves du Roy. Quindi abbiamo subito deciso che dovevamo fare qualcosa”. Nel corso di 12 anni, le due donne mettono insieme un gruppo di ricercatori, artisti e giornalisti che hanno lavorato duramente al progetto “Allo, Beirut?” per offrire al pubblico libanese la possibilità di coltivare un senso di appartenenza, mettere in discussione il passato e immaginare un futuro. Organizzata in sale tematiche, visitando la mostra ci si immerge in un’esperienza interattiva dove, tra le altre cose, ci si può tagliare i capelli da Ephrem, il salone di bellezza aperto per anni al piano terra dell’edificio, o immaginare nuovi modi di organizzare gli spazi pubblici della città, oltre a registrare un messaggio vocale in uno stand dal titolo “Beirut, voglio dirti una cosa”.
Secondo Mona, che co-dirige la mostra, ospitarla a Beit Beirut aveva un triplice scopo. “Per la prima volta abbiamo avuto la possibilità ospitare un progetto in perfetta sintonia con lo spirito del luogo, poiché entrambi hanno una storia di abbandono e memoria della città. Poi volevamo provare che, attraverso un approccio artistico multidisciplinare, ci sono centinaia di modi di raccontare la storia di Beirut. Al tempo stesso, volevamo mostrare tutto il potenziale di Beit Beirut come un luogo dove si può discutere del futuro riflettendo sulla nostalgia del passato”. Qui risiede il terzo obiettivo dei curatori, non meno importante e raro in un Paese che fatica ancora a fare i conti con la propria storia: sfidare il modo in cui sono conosciuti gli anni Sessanta, ovvero la cosiddetta “età dell’oro” libanese. “Stiamo dimostrando che in realtà quegli anni non sono stati così poi così belli. Ieri, come oggi, la politica non si prendeva cura dei suoi cittadini e la prosperità era solo per pochi.”
A testimonianza di ciò, la mostra offre una ricostruzione dell’ufficio di Gay Para, il proprietario di Les Caves du Roy, che con i suoi scritti ha sempre sostenuto la necessità di riforme sociali e criticato una classe politica che definiva allora “malata, ossessionata solo dal far soldi”. Tra i risultati di questo meticoloso lavoro di ricerca c’è anche la documentazione delle banche fallite durante gli anni Sessanta. “È un fatto per lo più sconosciuto, ma anche allora i risparmi di migliaia di persone andarono in fumo a causa dei banchieri, esattamente come avviene oggi”, spiega ancora l’architetta.
Questi riferimenti permettono ai cittadini libanesi di riscoprire la complessità di quel periodo e i tratti comuni con la situazione attuale. Dopo le proteste di massa dell’ottobre 2019 e la tragica esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut (che ha coinvolto gran parte del porto e ucciso più di 200 persone oltre a distruggere una parte significativa delle riserve di grano del Paese), negli ultimi quattro anni il Libano è ripiombato in una crisi economica cronica, in cui la pandemia da Covid-19 ha solo peggiorato le cose. Ciononostante “Allo, Beirut?” sta suscitando grande curiosità da parte della gente. “Da quando abbiamo aperto, abbiamo una media di 150 visitatori ogni giorno. Ne siamo felici, perché rendendone gratuito l’ingresso volevamo che fosse accessibile a un pubblico più ampio e variegato possibile.”
Dopo oltre 30 anni di battaglie burocratiche, ma anche culturali e personali, per Mona vedere Beit Beirut agire finalmente come un museo è motivo di soddisfazione. “’Allo, Beirut?’ rappresenta un successo, ma numerose sono state le difficoltà negli anni”, ricorda, in linea con la complessa storia dell’edificio stesso, fatta di un susseguirsi di vita, morte e sopravvivenza. Mentre ci muoviamo tra le stanze dell’edificio, Mona ci racconta della vita felice dei loro proprietari, la famiglia Barakat; oppure di Ephrem, che aprì il salone di bellezza dopo aver vinto nel 1961 il primo premio alla lotteria nazionale. I tanti buchi dei proiettili sui muri ci ricordano il buio della guerra civile, che ha trasformato l’edificio in una macchina per uccidere. In seguito, a guerra finita, vennero gli anni dell’incuria e anche dei lavori di restauro, che non ne seguirono propriamente la logica architettonica. Infine, l’esplosione del porto nel 2020 che ha danneggiato gravemente alcune parti di Beit Beirut, ancora da recuperare.
“L’edificio è una straordinaria metafora della nostra storia di resilienza -conclude Mona-. Ad esempio, l’esplosione del 4 agosto di tre anni fa ha portato a una maggiore consapevolezza sulla conservazione del patrimonio. Per non parlare di tutte le iniziative della società civile per colmare il vuoto politico nella ricostruzione. Ma questa resilienza è sempre un’arma a doppio taglio, perché rende le autorità meno responsabili, ma nel caso di Beit Beirut questo è un vantaggio. Fino a quando non ci sarà un vero museo storiografico della guerra civile, è una fortuna che luoghi come questo siano lasciati alle persone comuni per riunirsi e riflettere sulle rispettive storie, lontane dalla politica”.
Inaugurata il 15 settembre del 2022, “Allo, Beirut?” rimarrà aperta fino alla fine di giugno di quest’anno. “Sarà difficile continuare durante l’estate perché non siamo in grado di permetterci le spese per l’aria condizionata”, osserva frustrata Mona, toccando di nuovo la realtà odierna del Libano. Tuttavia, non mostra segnali di cedimento. “Con la mostra stiamo dimostrando che un’altra narrazione della città è possibile. Noi libanesi siamo abituati a voltare pagina e ad andare avanti nelle nostre vite. Questo è solo l’inizio”.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su The New Arab
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