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Altre Economie / Reportage

“Cash for trash”, storia di un ciclo virtuoso in Libano

Il gruppo di lavoro di ReFuse

Nel contesto di una crisi senza fine, le iniziative a tutela dell’ambiente nel Paese si moltiplicano. Tra queste, un gruppo di italiani e libanesi ha fondato ReFuse, impresa sociale che crea valore dai rifiuti, attiva nel quartiere di Bourj Hammoud, tra i più poveri di Beirut

Funziona così: arrivi al negozio con ciò di cui vuoi disfarti, ti registri, posi i tuoi rifiuti su una bilancia e poi li separi nei rispettivi bidoni. Aperto un account, a seconda del peso puoi ottenere una ricompensa in denaro, per un minimo di 50.000 lire libanesi (circa 1,80 euro al luglio 2022). Questo è “cash for trash”, un ciclo virtuoso ideato dall’impresa sociale ReFuse, possibile grazie alla vendita dei rifiuti ai riciclatori presenti in Libano. Una minirivoluzione nel Paese anche perché tutto ciò avviene nel quartiere di Bourj Hammoud, tra i più poveri della capitale dove vivono, oltre a libanesi, anche armeni, rifugiati siriani, lavoratori migranti, palestinesi. Un mix culturale in cui tensione e accettazione convivono ogni giorno ma da dove ReFuse ha deciso di partire.

Incontriamo a Beirut Guglielmo Mazzà, 28enne ingegnere ambientale originario di Roma, nonché uno dei fondatori dell’impresa. Ci racconta come tutto sia partito dalla valle della Bekaa, al confine con la Siria, nel campo informale di Bar Elias dove Guglielmo ha vissuto per tre mesi dal gennaio 2019. Arrivato come collaboratore dell’organizzazione Microfinanza, si è occupato di progetti che miravano a introdurre la raccolta differenziata nel campo. Realizza presto come questi non tenevano conto però delle reali condizioni di vita dei residenti rifugiati siriani. “In una situazione che limita fortemente movimenti, spazi e possibilità, perché una persona dovrebbe fare questo sforzo?”. Per questo inizia a concepire qualcosa di diverso.

“Guardando tutta la filiera abbiamo pensato a un sistema di scambio che parte dall’individuo che produce i rifiuti e a cui bisogna dare un fattore attrattivo per ricompensare lo sforzo iniziale”. Bar Elias segna fortemente Guglielmo, al punto che dopo essersi laureato decide di tornare in Libano. “Mi sentivo in debito verso un contesto che mi ha dato tanto. Quando sono andato via, il mio vicino di tenda nel salutarmi mi ha regalato una pietra azzurra e mi ha detto: ‘Non so se mai ti rivedrò, perché hun alium, bukra mabarif (oggi sono qui, domani chi lo sa), ma se ci riuscissimo mi farebbe molto piacere’. Ecco, quelle parole sono state una spinta incredibile per creare ReFuse”.

L’impresa però non vede la luce a Bar Elias, poiché nell’aprile 2019, nell’ambito di una stretta delle autorità nei confronti dei rifugiati siriani in tutto il Paese, il campo viene raso al suolo. Per questo Guglielmo, Ali, Cosima e Umberto (gli altri tre co-fondatori di ReFuse) iniziano la ricerca di un altro posto. Densità urbana, assenza di raccolta differenziata, vulnerabilità economica sono le condizioni per cui lo scambio soldi-rifiuti si potesse applicare e che alla fine i ragazzi individuano in Bourj Hammoud. “Ci serviva poi un partner, e lo troviamo in Fabric Aid, che da anni raccoglie rifiuti tessili a Beirut per rivenderli a micro-prezzi a chi ha un potere economico molto basso. Avendo loro già un negozio nel quartiere, dove va spesso tanta gente già abituata al concetto di ‘recupero-riuso’, abbiamo pensato che mettere insieme i due business poteva risultare utile a entrambi”. Riabilitato un vecchio panificio dismesso, ReFuse apre il suo primo negozio nell’ottobre 2021, in un periodo in cui alla crisi economica in Libano si era aggiunta anche quella energetica ed operare, a qualsiasi livello, era molto complicato. Ma nonostante le difficoltà e con un budget minimo, le persone sembrano apprezzare. Inizialmente solo per curiosità, “ma poco alla volta abbiamo capito che non sono solo i soldi a motivarli”. Guglielmo racconta che c’è chi lo fa certamente per una coscienza ambientale ma anche chi vuole migliorare un quartiere che si degrada sempre di più, non solo a causa della povertà diffusa. Nella memoria degli abitanti è ancora viva infatti la crisi dei rifiuti del 2015 che il governo pensò di “risolvere” con la costruzione di una discarica a cielo aperto proprio a Bourj Hammoud, e che da allora ha un impatto ambientale fortissimo su tutta la costa. Ma è anche in quel periodo che sono emerse in seno alla società civile varie iniziative che poco alla volta si sono diffuse in tutto il Paese.

In un recente documentario, “Trash for Profit” (in cui si parla anche della Ggril, vedi Altreconomia 244), il sito di informazione indipendente Beirut Today indaga su ciò che oggi sembra stia diventando un settore economico in espansione.Abbiamo tutti l’obiettivo della tutela ambientale, ma manca un quadro legale di coordinamento”, spiega Guglielmo, secondo cui bisognerebbe ripartire dalla legge 80 del 2018. L’importanza di quest’ultima sta nel definire parametri tecnici a cui tutte le organizzazioni e imprese devono sottostare, ma i governi non hanno mai proceduto con i decreti attuativi e a oggi tutto tace. Nonostante la crisi multidimensionale (economica, finanziaria, sociale) che non sembra avere fine, le elezioni legislative dello scorso maggio non si sono ancora tradotte in un nuovo governo. Di conseguenza permane uno stallo politico di cui gli unici a beneficiare sono i partiti tradizionali, che vedono le loro reti clientelari non intaccate, ivi incluse anche le connivenze con la raccolta informale dei rifiuti. “Questo mercato in Libano è complesso ed è in mano ad aziende che riciclano ed esportano anche all’estero, da cui però nascono anche le condizioni favorevoli all’esistenza di un mercato nero”.

Chiunque abbia visitato Beirut avrà visto almeno una volta bambini o adulti rovistare tra i cassonetti e raccogliere plastica, carta o metalli che al mercato nero vengono pagati circa 7.000 lire libanesi al chilogrammo (circa 25 centesimi di euro al luglio 2022). Dietro di loro c’è un sistema di sfruttamento gestito da persone di potere che assegnano cassonetti specifici nei vari quartieri a dei “raccoglitori” che pagano una quota al “caporale”, così da avere il “diritto” di rovistare per rivendere poi ad aziende spesso legate agli stessi caporali. In altri casi ai raccoglitori viene dato il permesso di andare direttamente nelle discariche, tra cui proprio quella a Bourj Hammoud. “Il paradosso è che questo sistema informale è mosso dalle stesse aziende a cui noi o altre iniziative vendiamo il materiale raccolto”, riflette Guglielmo. “La questione è molto delicata, e non è un caso l’assenza di volontà politica di affrontarla. E questo non fa altro che rendere ancora più difficile l’analisi di tutta la filiera dei rifiuti”.

In una realtà così complessa ciò che ReFuse prova a fare è quindi partire dal basso. “Da quando abbiamo aperto abbiamo visto intere famiglie imparare a schiacciare le bottiglie di plastica e separarle dal tappo; persone che, di diversa estrazione sociale, partecipano ai nostri incontri sulla raccolta informale; o ancora le scuole con cui organizziamo dei clean up per le strade. Piccoli cambiamenti che ci dicono che qualcosa si muove”. Un percorso, questo, che ReFuse intende fare insieme ad altri attori in modo da ottimizzare sforzi e risorse. A partire dalle municipalità, che in Libano hanno la delega alla gestione dei rifiuti ma non hanno fondi e strumenti per farlo, ma anche dal vasto mondo della cooperazione internazionale, in Libano sempre più presente “ma che non sempre ha una prospettiva d’impresa nei progetti che implementa”. Per Guglielmo, infatti, il modello di impresa sociale di “cash for trash” almeno fornisce una base di sostenibilità sin dall’inizio, perché crea valore e reddito laddove non c’era. Non solo per i clienti ma anche per lo staff, come D. e K., che in ReFuse hanno trovato un lavoro, obiettivo che in Libano non è affatto scontato date le loro condizioni (rispettivamente sudanese e apolide l’una, sud-sudanese e rifugiata l’altra). Da imprenditore però, Guglielmo guarda già oltre e afferma che ReFuse, in futuro, dovrà pensare a come non essere più necessaria. “Il sogno è che tutto ciò che abbiamo diventi riutilizzabile, riparabile o compostabile. Ciò che facciamo oggi ci sembra molto bello, ma il nostro modello potrebbe evolversi con l’inclusione di strumenti in condivisione, ospitare nei negozi saponi ‘alla spina’, oppure offrire un servizio di riparazione di vari strumenti. L’obiettivo di lungo termine è quello di decostruire ReFuse insieme a una comunità che cerchiamo lentamente di coinvolgere in un percorso di decrescita”.

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