Cultura e scienza / Opinioni
L’arte deve smascherare la realtà
È ancora attuale la lezione di Michel Foucault di oltre 30 anni fa: la vita dell’artista deve essere una testimonianza. E Caravaggio è stato il primo. Dalla rubrica “Un volto che ci somiglia”, di Tomaso Montanari
Capita, a volte, di leggere qualcosa che, come un lampo in un cielo buio, ti illumina improvvisamente e inaspettatamente su qualcosa di lontanissimo dall’oggetto di quello stesso testo. Così è successo a me leggendo una pagina strepitosa dell’ultimo corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France, nel 1984 (gli appunti sono pubblicati in italiano da Feltrinelli con il titolo Il coraggio della verità). In essa Foucault parla del fatto che in epoca moderna, soprattutto nella Francia del secondo Ottocento, sono stati gli artisti figurativi a raccogliere una delle eredità degli antichi filosofi cinici, quella di dire la verità, anzi di far coincidere la propria vita e la propria opera con la verità stessa.
Leggiamone alcuni brani: “Il corpo stesso della verità è reso visibile attraverso un certo stile di vita, una vita concepita come presenza immediata eclatante e selvaggia della verità. Esercitare nella vita, attraverso la propria vita, lo scandalo della verità. L’arte moderna è stata per noi il veicolo di questo principio della relazione tra lo stile di vita e la manifestazione della verità, in primo luogo -penso- verso la fine del Settecento, e nel corso dell’Ottocento: ma si tratta, ancora una volta, di questioni da studiare. È allora, sembra, che viene l’apparizione di qualcosa di molto particolare nella cultura europea: la vita da artista. La sola idea che l’artista deve avere una vita speciale, irriducibile alle dimensioni, alle norme ordinarie era già accettata. Per rendersene conto basterebbe leggere, ad esempio, le Vite del Vasari e l’autobiografia di Cellini: ma poi appare qualcosa di completamente nuovo, di diverso rispetto a ciò che potevamo trovare nel Rinascimento e in Vasari. Appare l’idea che la vita dell’artista deve, nella sua forma stessa, rappresentare una certa testimonianza dell’arte nella sua verità: se l’arte ha proprio la forma della verità, della vera vita, la vita di rimando è la garanzia per cui ogni opera radicata in essa, a partire da essa, appartiene davvero alla dinastia, e al campo dell’arte.
Credo, insomma, che questa idea della vita d’artista come condizione e certificazione dell’opera d’arte, come opera d’arte essa stessa, sia un modo di riprendere questo principio cinico della vita come manifestazione di rottura scandalosa attraverso la quale emerge, si manifesta e prende corpo la verità. C’è un’altra ragione: l’idea che l’arte stessa deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire. In questo senso credo che potremmo fare una storia di un modo di vita connesso alla manifestazione della verità. Potremmo farlo a proposito dell’arte moderna, così come possiamo farlo a proposito dei movimenti rivoluzionari, come è stato fatto a proposito della spiritualità cristiana. Perdonatemi per questa rapida scorsa, non sono che annotazioni per un lavoro possibile”.
C’è una sola inesattezza: tutto ciò non comincia alla fine del Settecento, comincia con Caravaggio. Questa pagina è la più profonda lettura dell’opera e della vita di Caravaggio: anche se Foucault non lo sapeva. E, dopo averla letta, non potremo più guardare con gli occhi di prima alla scandalosa realtà del padre dell’arte moderna.
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Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Da marzo 2017 è presidente di Libertà e Giustizia
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