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Cultura e scienza / Intervista

Giulia Caminito. Scrivere è disertare l’ovvio

Giulia Caminito © Andrea Ottaviani

Tra le voci più originali della narrativa italiana contemporanea, l’autrice de “L’acqua del lago non è mai dolce” sceglie sempre strade inaspettate. E non risparmia il mondo culturale che conosce dall’interno, avendo lavorato come redattrice ed editor, offrendo uno sguardo diretto su dinamiche precarie e soffocanti. Con il suo ultimo romanzo sfida le aspettative del mercato, esplorando dolore, memoria e identità fuori dai cliché dell’autofiction

Giulia Caminito può essere considerata un “talento generazionale” della narrativa italiana, di quelli che si palesano una volta ogni dieci o quindici anni. Nata a Roma nel 1988, ha già al suo attivo quattro romanzi.

Il suo esordio “La grande A” (Giunti, 2016), premiato con il Bagutta opera prima, intreccia storia familiare e memorie, viaggiando tra Italia e Africa durante il fascismo e il dopoguerra. Caminito ha continuato a esplorare temi legati alla memoria, alla storia e alle relazioni interpersonali nei suoi lavori successivi. Il percorso è proseguito con “Un giorno verrà” (Bompiani, 2019), un affresco che cattura la vita di un borgo marchigiano tra fine Ottocento e Grande guerra, esplorando le dinamiche sociali e i destini individuali. Nel 2021 è uscita la sua opera più celebre, “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani, 2021), un romanzo che esplora la vita di una famiglia proletaria sulle rive del lago di Bracciano, ad Anguillara Sabazia. Finalista al Premio Strega e vincitrice del Premio Campiello, questo romanzo è stato tradotto in venti lingue ed è considerato uno dei suoi lavori più significativi.

Oltre alla scrittura, Caminito si dedica anche a progetti culturali e corsi di formazione. Ad esempio, ha partecipato al corso, organizzato dalla scuola di scrittura Belville di Milano, “Ritratto di famiglia“, dove esplora le storie familiari come fonte di ispirazione per la letteratura. Inoltre è coinvolta in diversi progetti che riflettono una sensibilità femminista e una forte attenzione verso le questioni di genere. Tra questi, spicca la campagna letteraria Unite contro la violenza di genere, lanciata dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin nel 2023.

Con “Il male che non c’è” (Bompiani, 2024), secondo capitolo di una trilogia sulla negazione, Caminito conferma la capacità di reinventarsi. Pur etichettata come “giovane scrittrice” apprezzata dal mercato, sceglie sempre strade inaspettate. La sua voce critica non risparmia il mondo culturale che conosce dall’interno, avendo lavorato come redattrice ed editor, offrendo uno sguardo diretto sulle dinamiche editoriali.

Caminito, da dove nasce l’idea del suo nuovo romanzo?
GC L’idea è nata da una questione personale, una lotta intima con l’ipocondria. Non volevo scrivere un
memoir o raccontare direttamente la mia esperienza medica, perché non mi interessava mettere in scena la mia vita privata. Preferivo analizzare il tema attraverso una storia romanzata, costruita con diversi piani temporali e usando la terza persona. Ho scelto questi filtri perché oggi in libreria si trova molta narrazione al limite con l’autofiction, con un racconto del dolore personale in presa diretta. Continuo a preferire la forma del romanzo, che trovo più stimolante.

In questo libro il protagonista è un personaggio spigoloso, poco empatico. Perché questa scelta?
GC Come avevo già fatto con Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, anche qui ho voluto creare un personaggio disturbante, che agisce in modo controintuitivo e a volte persino contro empatico. L’industria editoriale spesso chiede ai romanzi di generare empatia nel lettore e di essere rassicuranti. Al contrario volevo toccare corde profonde senza cadere nelle ovvietà narrative che oggi trovo molto presenti.

Il protagonista è maschile: questo ha sorpreso anche il suo editore?
GC Sì, perché l’editoria tende a volere dagli autori una certa continuità con le opere precedenti. Passare a un protagonista maschile ha creato domande e dubbi, sia nei lettori sia in chi ha lavorato al libro. Ma credo che nella scrittura sia importante cercare sempre l’inaspettato. Che cosa avrei dovuto fare? Il seguito de “L’acqua del lago non è mai dolce”, con la stessa protagonista che stavolta soffre di ipocondria? Mi sembrava un’idea inutile: quel libro l’ho già scritto. Ripetermi sotto mentite spoglie non mi interessa, non voglio creare il “franchise Caminito”.

L’editoria mainstream, quindi, spinge gli autori verso la ripetizione?
GC Si punta a una sorta di brandizzazione dell’autore. Se un libro funziona, si pretende che l’autore continui a cavalcare la stessa onda. Io, invece, credo che per crescere con la propria scrittura sia necessario cambiare, rischiare. Altrimenti si resta impantanati, si diventa riconoscibili fino al punto di essere incatenati a un unico stile o tema.

Per lei l’ipocondria ha mai avuto un significato oltre la paura della malattia?
GC Sì, per me è stata anche una forma di protezione, un nascondiglio, persino un modo per giustificare alcune scelte o evitare situazioni e relazioni che non volevo più portare avanti. Nel romanzo ho cercato di bilanciare la serietà del protagonista con la figura di Catastrofe, una creatura quasi buffonesca, da fumetto, ma anche inquietante. Lei incarna tutto lo spettro di emozioni che il protagonista ha smesso di provare.

Quando ha scritto per la prima volta un personaggio simile a Catastrofe?
GC Il primo personaggio simile a quello di Catastrofe è nato nel mio primissimo racconto pubblicato, più di dieci anni fa, prima del mio esordio nel romanzo. Goffredo Fofi lo pubblicò sulla rivista
Lo Straniero, che oggi non esiste più.

Di cosa parlava quel racconto?
GC Si intitolava “La bambina”. Raccontava di una protagonista che si ammala e, nel momento in cui sente l’inizio della malattia, scopre che nell’armadio della sua stanza è nascosta una bambina. Più la malattia avanza, più la bambina cresce, mentre la protagonista diminuisce di peso, di lucidità, di capacità. Era un modo per rappresentare la malattia non come un nemico da sconfiggere, ma come una creatura infantile che vuole stare con te, mentre tu tenti disperatamente di allontanarla.

Qual era il suo obiettivo nel raccontare il rapporto del protagonista con il padre e con il nonno?
GC
Volevo esplorare tre generazioni di uomini con relazioni molto diverse tra loro, a volte difficoltose. Il salto generazionale, però, non doveva essere solo una frattura, ma anche uno spazio di non giudizio. Tempesta, il nonno, riesce a comprendere suo nipote e cerca di avvicinarlo a una vita più concreta, senza criticarne troppo le rigidità. Il padre, invece, ha delle aspettative precise su Loris e tende a giudicarlo: da un lato lo aiuta, dall’altro valuta ogni sua scelta, come se non lo ritenesse all’altezza di un uomo di trent’anni. Il rapporto con Tempesta rappresenta per Loris un legame fondamentale, quasi un controcanto alla sua personalità. La perdita del nonno è per lui un trauma, perché significava avere accanto qualcuno che lo spingeva ad aprirsi al mondo. Mi sono resa conto che, dopo aver perso mio nonno, ho faticato molto a ristabilire questo rapporto con l’esterno. Ho finito per rifugiarmi nella lettura e nello studio, mentre mio nonno mi aveva insegnato la concretezza della vita quotidiana, il saper fare le cose da soli.

Nel libro ha inserito il tema dei piccioni e dell’orientamento. Come nasce questa scelta?
GC
Mio nonno aveva un colombaio, ma senza uno scopo pratico: non vendeva i piccioni, non li mangiavamo. Era semplicemente una sua passione. I piccioni, peraltro, sono animali intelligentissimi, con un incredibile senso dell’orientamento. Ho trovato ispirazione anche in opere come “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante e “La piazza del Diamante” di Mercè Rodoreda, che racconta la storia di un’allevatrice di colombi. Poi, quando si entra in fissa con qualcosa, lo si trova ovunque: ad esempio, la storia dell’ultimo piccione migratore mi ha colpito profondamente.

Nel libro affronta anche il mondo del lavoro culturale. Qual è il suo punto di vista?
GC
Sono partita dalle mie esperienze personali nel mondo dell’editoria, che oggi vive una sovrapproduzione quasi soffocante. Si lavora in condizioni di emergenza continua, gli stagisti entrano ed escono, vengono sfruttati e caricati di responsabilità sproporzionate. Volevo raccontare la frustrazione profonda di chi lavora in questo settore e metterla in contrasto con un’altra visione del lavoro, rappresentata da Jo, un personaggio che considera il lavoro solo un mezzo per guadagnare e poi vivere la “vera vita” al di fuori di esso. C’è, invece, un’altra categoria di persone che vede il lavoro come un’estensione della propria visione del mondo, dei propri valori e passioni. E qui nasce il tormento interiore: quando questa realizzazione non si concretizza, si ha la sensazione di non essere mai all’altezza e di non raggiungere nulla di significativo.

Secondo lei, la scrittura è un lavoro?
GC
Sì, la scrittura è un lavoro, anche perché in passato grandi scrittori e scrittrici hanno mantenuto intere famiglie con i loro racconti. Oggi, per me, è un lavoro, ma resta una professione particolare: non ha i confini netti del lavoro d’ufficio, di fabbrica, non è facilmente catalogabile. L’editoria, in particolare, vive di un’aura pseudo-romantica che attrae molti giovani, ma in realtà il settore è ormai ridotto all’osso. Molti giovani entrano in un sistema già compromesso, frammentato, fatto di esternalizzazioni e precarietà. Lo spazio per una realizzazione personale, oggi, è altamente improbabile.

Che cosa pensa del sistema editoriale attuale?
GC
L’editoria tradizionale ha esternalizzato quasi tutto, è sovraprodotta e ha ridotto le opportunità per chi inizia. Oggi, un venticinquenne che vuole lavorare in editoria trova solo partite IVA e lavori precari. Il sistema editoriale è diventato un luogo sempre più difficile per chi vuole entrarci e costruirsi un futuro.

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