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Economia / Opinioni

Anche senza il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) la “sovranità” italiana è a rischio

© Maryna Yazbeck, unsplash

Con la sciagurata decisione della Bce di non partecipare più all’acquisto del debito degli Stati e di alzare i tassi, il tema del Mes sembra decisamente meno rilevante perché quello italiano finirà comunque sotto attacco. L’Italia rischia così di finire ancor più sotto tutela, magari dei grandi prestatori privati. L’analisi di Alessandro Volpi

Stiamo assistendo a una discussione surreale. L’Italia è l’unico Stato a non aver ancora ratificato il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), lo strumento che dovrebbe servire a “concedere assistenza finanziaria” a quei Paesi che, pur avendo un debito sostenibile, abbiano difficoltà temporanee a finanziarsi sul mercato. È utile ricordare che pur non avendo ratificato il nuovo trattato, Roma ha già versato 14 miliardi di euro e dovrebbe arrivare fino a 125 (su un totale di 708 miliardi) di cui 80 già sottoscritti. Il tema che è sempre stato sollevato in merito è quello delle condizioni che un Paese indebitato deve accettare per ricevere il prestito e, soprattutto, si è dibattuto su quanto fare richiesta di sostegno da parte del Mes renda più costoso il debito del Paese in questione.

Ora, con la sciagurata decisione della Banca centrale europea (Bce) di non partecipare più all’acquisto del debito degli Stati e di alzare i tassi, il tema del Mes sembra decisamente meno rilevante perché quello italiano finirà comunque sotto attacco (con effetti sullo spread) e i tassi che dovrà pagare saranno sempre più alti. In altre parole, con questa strategia della Bce, l’Italia rischia di finire sotto tutela, magari dei grandi prestatori privati. O di dover incorrere in infinite condizionalità, a prescindere dal Meccanismo europeo di stabilità che, data l’esistenza di un debito di 2.770 miliardi di euro con una credibilità inferiore a quella greca, non sarà neppure applicabile al nostro Paese.

Ancora una volta discutiamo del dito e non della luna. Aggiungerei che, in queste condizioni, i 35 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) da qui all’estate diventeranno vitali e quindi le “riforme” richieste dalla Commissione europea andranno probabilmente fatte senza troppa discussione politica. Anche senza il Meccanismo europeo di stabilità, la “sovranità” italiana sembra assai a rischio. C’è poi un ulteriore pericolo in tal senso. Il debito pubblico è storicamente parte vitale della vita di uno Stato, che lo utilizza per far fronte a una porzione spesso molto importante della sua spesa. Nel caso italiano anche di quella decisamente essenziale.

Per finanziarsi, dunque, lo Stato da sempre vende il proprio debito. A partire dalla metà degli anni Novanta, sono stati creati degli strumenti finanziari molto peculiari, i cosiddetti credit default swap: delle assicurazioni contro i rischi di insolvenza di un titolo finanziario. In pratica, chi compra un’obbligazione può sottoscrivere un’assicurazione contro il rischio di perdite, anche nei confronti dei titoli del debito pubblico. Il problema vero è nato nel momento in cui anche chi non possiede questi titoli può comprare i credit default swap. Questo significa che simili assicurazioni diventano vere e proprie scommesse sull’andamento del titolo. Se si prevedono delle difficoltà partiranno gli acquisti di assicurazioni che scommettono sul suo pessimo andamento che potranno essere vendute, facendo pagare prezzi decisamente prezzi più alti. Naturalmente se tutti comprano credit default swap che scommettono sulle difficoltà del debito pubblico italiano, questo certamente vedrà peggiorata la sua condizione, con conseguenze pesantissime per le finanze pubbliche italiane e per gli italiani.

Ma allora perché si continua a permettere che vengano venduti credit default swap senza il possesso dei titoli? È facilmente intuibile infatti che, se questi venissero permessi solo a chi ha il titolo del debito, sarebbe suo interesse evitarne il deprezzamento. Ma se il suo possesso non è necessario conviene scommettere invece sul fallimento. In questo modo sono costantemente minacciate la sovranità e la democrazia degli Stati solo per far guadagnare gli “scommettitori”. Una situazione paradossale in un mondo dove quest’anno il valore dei derivati finanziari ha raggiunto la cifra record di 620mila miliardi di dollari, più di sei volte il Prodotto interno lordo mondiale. Persino la Banca dei regolamenti internazionali ha espresso tutti i propri timori perché tale montagna di carta ha superato quella che esisteva prima del crollo del 2008 e rende noto che ogni giorno oltre duemila miliardi di dollari “scommettono” sull’andamento delle monete, e quindi dei debiti pubblici degli Stati, ormai a sovranità assai limitata.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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