Diritti
Affari di Stato
A fine luglio nuovo stop al Trattato Onu sui trasferimenti di armi. Che continueranno -legalmente e illegalmente- ad alimentare i conflitti. Specie nel Sud del mondo
È ancora troppo presto per un Trattato internazionale sui trasferimenti di armi. Così anche l’ultima Conferenza Onu convocata per discuterlo, che si è tenuta tra il 2 e il 27 luglio, si è conclusa con un niente di fatto. Nessuna decisione in merito alla stesura e sottoscrizione del Trattato, Att per la sua sigla in inglese. E le frontiere per le armi continuano ad essere più aperte di quelle per le banane. Da quelle cosiddette “leggere”, cioè pistole e fucili, fino ai carri armati, elicotteri e cacciabombardieri.
Le armi sono un “prodotto” sempre sulla breccia, favorito dall’assoluta assenza di regole univoche e comuni a livello internazionale. Tanto che le stesse Nazioni Unite stimano, per difetto, in 250 milioni di dollari all’anno il giro d’affari dei traffici illegali (fonte Unodc).
Il fallimento della Conferenza Onu, tutto giocato nelle stanze dei diplomatici a New York, è il brutto epilogo di un lungo cammino durato anni grazie alla pressione della società civile di tutto il mondo, raccolta nella mobilitazione Control Arms (www.controlarms.org) partita nel 2004 e che in Italia (controlarms.it) ha visto la fotopetizione di sostegno raccogliere oltre 40.000 volti.
Il motivo principale dell’insuccesso risiede, però, nella dimensione del commercio legale di armamenti, che ha per protagonisti diretti gli Stati, acquirenti dei prodotti e -spesso- controllori delle aziende che li sviluppano. Un comparto che trae la propria linfa dall’enorme livello di spesa militare: 1.735 miliardi di dollari è la stima per il 2011, “corrispondenti a quasi due volte l’intero bilancio delle Nazioni Unite” come ha dichiarato a fine agosto il Segretario generale Ban Ki-Moon.
Da questa ampia riserva di fondi dedicati agli eserciti deriva la fetta dedicata al business armato: le prime cento industrie belliche fatturano infatti oltre 400 miliardi di dollari all’anno, e le prima dieci (tra cui l’italiana Finmeccanica) valgono da sole il 55% del fatturato delle “Top 100”. Quasi tutti questi soldi arrivano nelle tasche delle aziende a produzione militare tramite commesse “ad uso interno”, originate direttamente dai governi (e per questo le armi sono un “affare di Stato”). Solo una parte -circa 30 miliardi- diviene commercio internazionale di armamenti, quello di cui è importante analizzare le tendenze. Per scoprire che la Cina negli ultimi anni ha letteralmente inondato di fucili e mitragliatori a buon mercato l’Africa sub-sahariana, mentre gli Stati Uniti d’America nel 2011 hanno fornito quasi l’80% di tutte le armi finite ai Paesi in via di sviluppo (dati del Congresso di Washington). Consolidando una tendenza che si trova anche nell’export europeo ed italiano, che per oltre il 60% vede come destinazione proprio le nazioni più povere o in crescita, ma dove sono più alte le tensioni sociali. Non stupisce, quindi, che in testa alla classifica dell’import di armi ci sia l’India.
Al momento della discussione, nello scorso luglio diversi sono stati i veti e le spinte incrociate che hanno condotto alla situazione di stallo. Spesso le istituzioni di uno stesso Paese hanno dato indicazioni contradditorie (armstreaty.org): l’Italia, ad esempio, da un lato ha firmato, negli ultimi giorni delle trattative e insieme ad altri 72 Paesi, un documento con un forte richiamo verso l’approvazione di un Trattato con criteri rigorosi e che comprenda il divieto a trasferimenti in zone a rischio violazioni di diritti umani. Dall’altro, però, ha fatto pressione per escludere da qualsiasi regola internazionale le armi leggere ad uso civile, con l’inclusione delle sole pistole e fucili di chiara destinazione militare. Una posizione problematica e che non tiene conto che proprio le armi leggere al di fuori dei canali pertinenti agli eserciti siano le maggiori responsabili di omicidi e ferimenti.
“Pochi Paesi potenti, la Cina, la Russia e gli Stati Uniti d’America, non hanno avuto il coraggio di confrontarsi con le proprie responsabilità -ci ha confermato dopo il fallimento della Conferenza Brian Wood, uno dei massimi esperti sul tema e Arms Control Manager per Amnesty International e la campagna mondiale-. Un ulteriore fallimento dopo anni di lavoro e un ritardo che si rivela un’occasione mancata per porre fine alle sofferenze causate dal commercio sconsiderato di armi. Emblematica la posizione degli Usa, il Paese con il maggior mercato interno al mondo e con una popolazione civile armata fino ai denti, con l’amministrazione Obama messa sotto scacco da una una minacciosa lettera di oltre 50 senatori e costretta a chiedere ripetutamente l’esclusione delle munizioni da qualsiasi controllo. Ciò accade nonostante siano proprio i proiettili a rinfocolare i conflitti, giungendo copiosi in aree in cui sono abbondantemente disponibili le armi.
Nel corso delle trattative è sembrato che un accordo storico per un efficace Trattato internazionale sui trasferimento di armi fosse ad un passo, tanto che la maggioranza dei governi di tutto il mondo, in un documento ufficiale, ha espresso l’intenzione di continuare per questa strada.
Le speranze sono perciò ora rimandate all’appuntamento annuale con l’Assemblea generale Onu, che si è aperta il 18 settembre e che nelle sessioni di ottobre affronterà il tema “armi” insieme a molti altri. Ciò rende ancora più difficile immaginare un epilogo positivo per le speranze del disarmo: posizioni di potere e interessi e vantaggi economici di pochi, conditi da episodi di corruzione, continuano a rendere appetibile la mancanza di regole che caratterizza questo particolare commercio. La crescita più impressionante si ha soprattutto per quelle armi che davvero provocano il maggiore impatto sui conflitti e le vite di milioni di persone: pistole, fucili, armi semiautomatiche ed automatiche. L’ultimo rapporto Small Arms Survey, dedicato a questo ambito, stima in oltre 8,5 miliardi di dollari il giro di affari, che arriva a 10 miliardi considerando quelle commercializzate in modo illecito. Fatturati concentrati nelle mani dei “soliti noti”, con l’Italia, che è stabilmente al secondo posto fra gli esportatori, grazie anche a super-commesse come quella recentemente festeggiata a Gardone Valtrompia (Bs) sede della Fabbrica d’armi Pietro Beretta. 100mila pistole M9 ordinate dall’esercito Usa, per un controvalore di circa 70 milioni. Gli affari possono continuare, senza regole. —
Armi: un libro per capire soldi, interessi e scenari
La Grecia, sull’orlo del default, è il Paese europeo che spende di più per la Difesa. Basterebbe questo dato a spiegare perché il mercato degli armamenti sia un business che non conosce crisi, che è cresciuto del 50% negli ultimi dieci anni. Nomi, cognomi e dati (a partire da un’analisi approfondita del colosso italiano del settore, Finmeccanica, e dei suoi scandali) sono raccolti nel libro “Armi, un affare di Stato” (Chiarelettere, 14 euro), che Duccio Facchini e Francesco Vignarca di Altreconomia firmano insieme al nostro collaboratore Michele Sasso.