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Abdullahi Ahmed. “Il mio Manifesto di Ventotene”
Abdullahi Ahmed è un mediatore culturale somalo. Lavora per rafforzare le nuove generazioni di migranti. Anche a partire dal cambiamento della loro narrazione
Lo scorso ottobre, a tredici anni dalla sua partenza, Abdullahi Ahmed ha rimesso piede per la prima volta nella sua città natale, Mogadiscio in Somalia, che aveva lasciato ad appena 19 anni per fuggire la violenza e costruirsi un futuro migliore. In quel viaggio Ahmed ha portato con sé centinaia di lettere scritte dagli studenti del Liceo Cottini di Torino e dell’Istituto “8 marzo” di Settimo Torinese ai loro coetanei somali e un ideale: l’utopia di Ventotene.
“Nel mio Paese si combatte da 30 anni e ai giovani somali la guerra sembra l’unico orizzonte possibile, non sanno immaginare un dopo, un mondo diverso. Guardano all’Europa come un luogo di benessere e di pace, ma non è sempre stato così: negli anni Quaranta, italiani, francesi e tedeschi si sono combattuti aspramente”, spiega Ahmed. È profondamente convinto che il Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel 1941 durante il confino su un’isola sperduta nel mar Tirreno, possa offrire una lezione preziosa ai giovani somali: “Si può sempre pensare a un mondo migliore. Ed è possibile preparare la pace anche in tempi di violenza. Nel 1941 immaginare un’Europa unita e in pace era quasi impossibile ma c’è chi lo ha fatto: gli intellettuali che hanno dato vita al Manifesto di Ventotene. Se l’Europa è riuscita a superare le ragioni di quel conflitto e vivere in pace da più di 70 anni può riuscirci anche la Somalia”.
Nel 2021 “GenerAzione Ponte” vuole diventare la prima associazione della diaspora iscritta all’Agenzia italiana per la cooperazione internazionale
Abdullahi Ahmed, classe 1988, è arrivato in Italia nel 2008 come richiedente asilo. Oggi è cittadino italiano, vive in provincia di Torino, lavora come mediatore culturale ed è promotore di diverse iniziative finalizzate al dialogo, alla promozione della pace e alla cooperazione internazionale attraverso l’associazione “GenerAzione Ponte” (generazioneponte.com) di cui è fondatore e presidente. Lo scorso dicembre è stato selezionato dalla Commissione europea tra i vincitori del Premio Altiero Spinelli. Ha raccontato la sua storia e i suoi progetti nel libro “Lo sguardo avanti” (ADD editore, 2020) .
Ahmed, come ha conosciuto il Manifesto di Ventotene?
AA Durante un viaggio a Bruxelles ho scoperto, per caso, la figura di Altiero Spinelli. Mi sono incuriosito, ho iniziato a studiare la sua storia e le sue opere. Nel 2017 ho visitato la prima volta Ventotene che ho voluto come sede del “Festival dell’Europa solidale e del Mediterraneo”.
Che cosa l’ha colpita di quel testo?
AA Le persone al confino a Ventotene erano giovani, io al loro posto avrei dedicato le mie energie a immaginare come fuggire e invece loro hanno avuto la capacità di immaginare un mondo diverso. Mettendo al centro l’idea che ciascuno possa dare il proprio contributo, per quanto piccolo, per cambiare le cose e rendere il mondo un posto migliore.
Che cosa racconta nel libro “Lo sguardo avanti”?
AA C’è la mia storia, ma non solo. È pensato soprattutto per portare un cambio di prospettiva sul tema delle migrazioni: quando sono arrivato in Italia, nel 2008, si parlava di “emergenza migranti”. Oggi, sui giornali e ai telegiornali tornano ancora le stesse parole. Sono passati più di dieci anni e penso sia importante che gli immigrati non siano più oggetto della narrazione, ma soggetti protagonisti. Per questo il libro si rivolge soprattutto ai più giovani, per invitarli a essere cittadini attivi.
“Proporre oggi le soluzioni degli anni Settanta non ha senso. Ai giovani africani servono idee nuove e strumenti di emancipazione, come l’utopia del Manifesto di Ventotene”
Una frase cardine del libro è “non si può essere stranieri per sempre”. Che cosa occorre fare affinché si realizzi questa condizione?
AA Il libro vuole essere un invito alle persone con background migratorio e che vedono l’Italia come la propria casa a diventare cittadini consapevoli, attivi e protagonisti del futuro della nostra società. A partire dalle cose più semplici: se un familiare o un amico che vive all’estero viene a trovarmi a Torino e io non sono in grado di mostrargli i luoghi simbolo della città, non ne conosco la storia, la responsabilità è solo mia. Per questo motivo come “GenerAzione Ponte” organizziamo spesso iniziative rivolte ai cittadini stranieri per far conoscere Torino e la sua storia. Partendo da qui è possibile poi impegnarsi per rendere la città in cui si è scelto di vivere un luogo migliore per tutti.
Cosa devono fare le istituzioni per favorire questo percorso?
AA Le istituzioni, a tutti i livelli, possono avere un ruolo fondamentale. La città di Torino, ad esempio, per sette anni ha consentito ai giovani stranieri residenti in città la possibilità di svolgere il servizio civile comunale: un’iniziativa unica in quegli anni. Solo nel 2014, a seguito di una sentenza del Consiglio di Stato, questa opportunità è stata estesa a tutta Italia. Io, proprio in quell’anno, ho scelto di fare il servizio civile per restituire qualcosa alla comunità che mi aveva accolto. Un’altra iniziativa significativa, in questo senso, è l’approvazione della legge 125 del 2015 che permette alle associazioni della diaspora di essere soggetti attivi e di proporre progetti nella cooperazione internazionale. Cosa che in precedenza non era possibile.
Quali sono gli obiettivi di “GenerAzione Ponte”, l’associazione che ha fondato assieme ad altri nove giovani di origine straniera?
AA Il nostro obiettivo principale è promuovere percorsi per cambiare la narrazione sui migranti. Inoltre, quest’anno ci saranno le elezioni comunali a Torino e vogliamo promuovere una campagna di sensibilizzazione per esercitare il diritto di voto rivolta sia ai giovani italiani, sia ai cittadini che hanno un background migratorio. C’è poi un altro traguardo che vorremmo raggiungere: diventare la prima associazione della diaspora iscritta all’Agenzia italiana per la cooperazione internazionale. Nel 2021 avremo maturato il requisito richiesto di anzianità di tre anni. Sarà una sfida importante mettere in atto il nostro modello di “aiutarli a casa loro”.
Quale modello avete in mente?
AA Proporre oggi le soluzioni degli anni Settanta e portare solo aiuti materiali ha poco senso. Ai giovani africani servono idee nuove e strumenti di emancipazione, come l’utopia del Manifesto di Ventotene. Penso alla Somalia: il 60% dei giovani non frequenta le scuole medie e superiori perché non c’è istruzione pubblica e una famiglia con quattro o cinque figli non può permettersi di pagare le rette di una scuola privata. Stiamo parlando di circa 15 dollari al mese per le scuole medie e 17 per le superiori. Per favorire lo sviluppo umano di un Paese è necessario investire nell’istruzione per dare ai giovani quegli strumenti di emancipazione e consapevolezza che permetteranno loro di essere utili al proprio Paese. Con “GenerAzione Ponte” abbiamo deciso di investire in borse di studio: durante il mio viaggio a Mogadiscio ho distribuito le prime 64 e l’obiettivo è arrivare a 100 nel 2021.
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