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A cinquant’anni del golpe: Salvador Allende e la via cilena al socialismo

Un collage di manifesti-cartoline prodotti nel triennio 1971-1973 dall'Unidad popular che fanno parte della pubblicazione "Lungo le strade di Unidad Popular. I manifesti cileni degli anni 1971-1973", Arci Uisp, Roma, novembre 1975

L’11 settembre il colpo di Stato militare in Cile che pose fine al governo di sinistra compie mezzo secolo. Per l’anniversario, nel Paese e in tutto il mondo, non si contano conferenze e manifestazioni, libri e podcast, per ricordare i fatti e rileggerli oggi. In Italia una delle pubblicazioni più interessanti è “L’altro settembre” di Andrea Mulas

L’11 settembre 2023 saranno passati cinquant’anni dal colpo di Stato militare in Cile che pose fine al governo di sinistra di Salvador Allende, il primo marxista ad andare al potere tramite elezioni. Nell’ambito dell’anniversario, in Cile e in tutto il mondo, si stanno organizzando conferenze e manifestazioni, pubblicazioni di libri e podcast, per ricordare gli eventi cileni e metterli in prospettiva con il presente. In Italia una delle pubblicazioni più interessanti è “L’altro settembre” di Andrea Mulas, per le edizioni Bordeaux.

Mulas, ricercatore della Fondazione Basso, ha costruito un saggio basato su solide fondamenta storiografiche, usando materiale raccolto in oltre due decenni di ricerca sulla traiettoria politica di Allende. Il suo lavoro si inserisce nel filone della storiografia italiana sulla vicenda, insieme ad autori come Stabili, Nocera, Pettinà, Traverso. Su quelle fondamenta si alza una costruzione che ha il tono di una cronaca e il valore di un lavoro colmo di passione politica. Chiariamo: non si tratta di una mitizzazione dell’esperienza allendista. L’autore non fa mistero del suo punto di vista fin dall’inizio, ma più che celebrare Allende, suscita domande nel lettore, “Come sarebbe andata se l’avessero lasciato governare?”.

Il libro ripercorre i mille giorni del governo dell’Unidad popular (Up, la coalizione di comunisti, socialisti e altre forze progressiste), partendo dall’euforia collettiva della vittoria elettorale del settembre 1970, quando “il socialismo era all’ordine del giorno, non un sogno proiettato in un futuro lontano”, fino al sorgere delle ombre che portano alla tragedia finale. Gli eventi scorrono in una cornice storica definita con precisione: la rigidità ideologica della Guerra fredda, la rivoluzione cubana come canone dei movimenti guerriglieri latinoamericani, i tentativi delle amministrazioni democratiche degli Stati Uniti d’America negli anni Sessanta di frenare i movimenti rivoluzionari con sussidi ai Paesi della regione. In questa cornice, l’autore mostra la radicalità del progetto allendista, caratterizzato almeno da due punti.

Innanzitutto, chiarendo che il programma della Up non era appena un aggiustamento ai problemi del Cile. La “via cilena al socialismo puntava a distruggere lo Stato borghese e crearne uno nuovo”, come mostrano le trenta pagine sulla politica economica del governo, dove si presentano le iniziative di nazionalizzazione delle risorse naturali, le politiche sociali contro la fame (“Mezzo litro di latte per i bambini”, una delle più efficaci). E poi la riforma agraria che non puntava a statalizzare i latifondi -il 98% delle terre cilene- ma ad ampliare i diritti di proprietà, intervenire sulla proprietà delle imprese e promuovere la partecipazione dei lavoratori alla loro direzione.

La radicalità di Allende è rappresentata dall’idea di cambiamento “non insurrezionale, ma nel solco della democrazia borghese, possiamo cambiare la Costituzione, così come prevede la Costituzione stessa” affermava il presidente cileno. Ciò implicava, nel lungo periodo, cambiare la legalità della democrazia liberale in un altro modello. L’autore non ci dice come sarebbe potuto evolvere quell’esperimento ma chiarisce che Allende camminava lungo il solco della storia democratica del Cile, non seguiva paradigmi ma scriveva il proprio cammino pagina per pagina. 

Su questo punto si consuma la differenza di fondo con la rivoluzione cubana, che rappresentava la presa del potere per via armata e l’imposizione di una nuova legalità. Su questo punto si consuma la tensione dentro l’Unidad popular, la rissosa coalizione di governo che è stata spesso un inciampo sul cammino allendista. Ed è proprio questo aspetto, il socialismo che si afferma per via elettorale e avanza nel cammino della legalità, che spinge la Casa Bianca, allora guidata dal repubblicano Richard Nixon, a decidere di intervenire, con ogni mezzo, per evitare il contagio ad altri Paesi, soprattutto Francia e Italia. All’apice della crisi, all’inizio del 1973 in un Paese “sottoposto a due potenti e opposte spinte”, Mulas ipotizza che “un accordo politico per evitare una tragedia fu possibile fin quando non intervennero gli Stati Uniti” che spinsero anche la Democrazia cristiana cilena a favore di “una dittatura militare temporanea”. Gli Stati Uniti, come sappiamo oggi grazie ai numerosi documenti desecretati, hanno tramato fin dalla vittoria elettorale di Allende. Il Cile, non Cuba, era il chiodo fisso del segretario di Stato americano, Henry Kissinger, oggi celebrato come grande stratega della geopolitica mondiale, ma che un onesto esame storico dovrebbe portare al banco degli imputati per crimini di guerra (vedi anche qui).

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L’introduzione del libro è firmata da José Antonio Viera-Gallo, socialista cileno, politico di lungo corso, già ministro e presidente della Camera, docente universitario, ambasciatore. In un’intervista che gli feci nel 2019 mi raccontò dei suoi anni in Italia come esule della dittatura: “I cileni in Italia sono stati i primi immigrati in un Paese di emigranti. Partiti politici e gente comune ci accolsero a braccia aperte. Eravamo entusiasti e bastava poco per vivere, lavoravo in un istituto di ricerca con Lelio Basso. Il Partito Socialista ci aveva dato un ufficio per il coordinamento degli esiliati, mentre ‘Cile Italia’ organizzava le iniziative di solidarietà gestite dal Partito Comunista. L’esilio è duro, ma l’Italia lo rese più lieve”.

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Viera-Gallo, nell’introduzione, scrive che le commemorazioni sono sempre una tensione tra memoria e analisi e invita a fissare il fulcro nell’attività politica di Allende e nei valori della convivenza, un messaggio in controtendenza in un Cile oggi altamente polarizzato. Per quel Paese, il cinquantesimo è un anniversario agrodolce. Il processo che punta a superare la Costituzione imposta dalla dittatura militare (1973-1990) è impantanato, alcuni hanno nostalgia di Pinochet e diversi partiti politici puntano a prendere l’eredità del generale. Ma prosegue il cammino della giustizia contro i crimini commessi dalla dittatura e il governo ha rilanciato la ricerca dei resti dei desaparecidos. Il protagonista del libro di Mulas è Allende. E anche noi vogliamo concludere ricordandolo, con le parole del giornalista argentino Caparrós: “Che fanno le lacrime quando uno non le piange, aspettano l’occasione giusta? Come si crea un’occasione? Ascolto le ultime parole di Salvador Allende -la registrazione sporca, interrotta, delle sue ultime parole- l’11 settembre 1973, mentre la sua aviazione bombarda il suo Palazzo di Governo, quando già sa che ha perso il potere e sta per perdere la vita. Ed è difficile, di fronte a queste parole, non piangere. È difficile per la sua integrità di fronte alla morte e le ragioni della sua vita”.

La storia non si è fermata: è tornata la democrazia, il palazzo della Moneda è stato ricostruito e alle sue spalle sorge una statua di Allende. Nelle parole di Mulas: “Non un eroe solitario, un partigiano della democrazia che siede nel pantheon delle figure nobili del socialismo internazionale”. 

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