Terra e cibo / Approfondimento
Biodiversità e sementi contadine: la frontiera del Nord Europa
Agricoltori, fornai, appassionati di grani antichi e ricercatori amanti della terra: il coordinamento “Let’s Cultivate Diversity” si è ritrovato in Belgio. Obiettivo: condividere informazioni ed esperienze. Mentre il mercato dei semi si concentra in poche mani
Che suono fa una pagnotta appena sfornata? Axel batte le nocche sul dorso del pane e avvicina l’orecchio: “Senti? Il colpo va un po’ a vuoto e si sente un piccolo crick, come se dentro qualcosa si spezzasse”. Allora vuol dire che il pane è ben cotto e se anche mi giro a occhi chiusi, seguendo solo il profumo dei grani, sono certa che c’è già qualcuno con un coltello in mano, pronto a tagliare una fetta da condividere. Axel Colin è un fornaio artigiano belga, con la passione per i grani antichi. Insieme alla mugnaia Fanny Dumont ha creato la fondazione “La ferme artistique” (www.lafermeartistique.be), per salvare il mulino ad acqua d’Odeigne, a Manay, “per continuare a produrre farina di qualità e far sì che gli agricoltori possano selezionare le proprie varietà di grani e poi macinarle”. Con il mulino, Fanny e Axel gestiscono altri strumenti per la macinatura, un capannone, le vecchie scuderie e un ettaro di terra a cereali.
Quelli che sta impastando nel piccolo forno a legna della ferme du Hayon a Sommethonne, nel Belgio meridionale al confine con la Francia, sono stati coltivati da Marc Van Overschelde, che da oltre vent’anni fa agricoltura bio con sementi contadine. “Era il 2009 quando Marc è venuto nel Sud della Francia per prendere una manciata di semi da sperimentare nella sua azienda”, ricorda Jean-François Berthelot della “Réseau semences paysanne” (www.semencespaysannes.org), paysan boulanger nella ferme du Roc à Port-Sainte-Marie, in Aquitania.
Marc ha seminato un chicco ogni 10 centimetri, “perché il grano ha bisogno di spazio”, spiega mentre ci accompagna a visitare il campo di cereali della sua azienda, che ha ospitato lo scorso giugno il terzo appuntamento europeo del coordinamento “Let’s Cultivate Diversity!” (be2017.cultivatediversity.org). Per quattro giorni, la ferme du Hayon è diventata un atelier a cielo aperto per gli amanti della terra: agricoltori e fornai, appassionati e ricercatori di 19 diverse nazionalità (dall’Iran al Niger, dall’India alla Moldavia, attraversando l’Europa), si sono incontrati per scambiare informazioni ed esperienze sulla sovranità alimentare e i semi, la coltivazione e la trasformazione dei cereali bio.
Axel e Fanny hanno salvato un mulino ad acqua per continuare a produrre farina di qualità e far sì che gli agricoltori possano selezionare le varietà di grani e poi macinarle
L’incontro ha sancito l’operatività del network belga “Meuse-Rhine-Moselle” (MRMn), che dalla fine del 2015 offre una piattaforma comune agli attori impegnati nella tutela della biodiversità nel Nord Europa. La rete deve il suo nome ai tre fiumi che delimitano la regione racchiusa tra Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, la Germania dell’Ovest e il Nord-Est della Francia: un vasto territorio dove si trovano le 4 associazioni riunite nella MRMn. C’è la storica associazione belga “Nature et progrès” (www.natpro.be), specializzata dagli anni 70 nell’orticoltura biologica e la tutela delle sementi cittadine attraverso le case delle sementi; il “Mouvement d’action paysanne” (www.lemap.be), fondato nel 1998 dall’Unione dei giovani agricoltori per il riconoscimento dei diritti dei contadini e la sovranità alimentare; l’associazione “Li mestère” (www.limestere.be), che dal 2014 fa rete tra diversi attori della filiera del pane in Vallonia, e “Seed” (www.seed-net.lu), che in Lussemburgo dal 2012 si occupa di conservazione delle sementi e sviluppo della diversità.
“Abbiamo sentito il bisogno di fare rete al Nord”, spiega Marlène Moreau del MRMn, a margine di una conferenza in un’aula ricavata nella stalla della ferme. Il coordinamento europeo per la tutela della biodiversità e dei semi, infatti, ha molti attori al Sud, ma “tra i territori del Benelux c’era poca cooperazione”. “La nostra rete riunisce ricercatori, contadini, giardinieri, ma anche cittadini e amatori interessati alle sementi contadine e alle varietà locali”, aggiunge Frank Adams di Seed. Se nell’Europa meridionale c’è un grande fermento attorno alla tutela dei semi contadini, infatti, “noi abbiamo voluto dare centralità anche alle sementi cittadine, usate da chi, pur restando in ambiente urbano, coltiva le varietà tradizionali e locali, per tutelare la biodiversità”.
Si aggiunge così un tassello importante al Coordinamento europeo che, nelle parole di Riccardo Bocci di Rete semi rurali (www.semirurali.net), è “un open space nel quale scambiamo esperienze e conoscenze, facendo crescere insieme la rete e dando valore in essa anche alla varietà culturale che caratterizza questi diversi Paesi”.
Per Rete semi rurali, Riccardo aveva seguito direttamente i lavori della Commissione europea per la stesura di un nuovo Regolamento europeo “su tutto il materiale di propagazione vegetale (sementi, piante da frutto, ornamentali e specie forestali), con lo scopo di avere un unico strumento normativo”. Proposta che è stata rigettata nel 2014 dal Parlamento, frenando un percorso che era riuscito a includere il mondo associativo. Nel frattempo però è arrivato un altro importante riconoscimento dei sistemi sementieri informali: “La Commissione ha aperto alla possibilità di commercializzare in via sperimentale materiale eterogeneo, ovvero popolazioni e miscugli che non rispondono ai requisiti del catalogo ufficiale, contenendo tanti genotipi diversi -spiega Riccardo-. Per la prima volta è messo in dubbio il dogma dell’uniformità, che sta alla base della definizione di varietà”. Una novità importante per gli agricoltori, che possono così avere una maggiore diversità coltivata in campo e quindi “uno strumento in più contro le avversità” e la possibilità di far crescere la resilienza degli ecosistemi.
C’è chi vuole salvaguardare e coltivare anno dopo anno le sementi contadine e chi mette in commercio “il primo peperone senza semi al mondo”. È una delle 2.500 varietà orticole commercializzate da Syngenta: un settore che per la multinazionale svizzera vale 6 miliardi di dollari (il 10% del mercato), con una previsione di crescita del 5% all’anno. Syngenta è una delle ditte protagoniste di un’altra storia, che ci racconta un mercato globale delle sementi sempre più concentrato: entro la fine dell’anno più del 60% del settore potrebbe essere controllato da tre sole aziende.
Proprio la multinazionale di Basilea è stata acquisita da ChemChina (colosso dell’agrochimica di Pechino), con la più grande acquisizione mai realizzata da un’azienda cinese (43 miliardi di dollari). La condizione dell’antitrust è che, per facilitare la concorrenza, ChemChina rinunci a una parte del suo business sui pesticidi (in particolare tramite la ditta Adama, che ha sede a Tel Aviv ed è stata acquisita dai cinesi nel 2010). Intanto Syngenta (che nel 2014 aveva acquisito la storica Società Produttori Sementi, fondata in provincia di Bologna nel 1911, leader nella selezione del grano duro in Italia) ha ribadito il suo obiettivo di “rafforzare la posizione di leader dell’agrochimica e diventare la numero tre del mercato sementiero mondiale”.
Anche la fusione tra eguali delle due società americane Dow e DuPont -annunciata nel dicembre 2015 per un valore di 130 miliardi di dollari- sta andando a buon fine. Le condizioni imposte dall’antitrust sono la vendita da parte di DuPont delle attività nel campo dei pesticidi e la dismissione di parte del settore chimico di Dow, per “non mettere in pericolo la concorrenza dei prezzi nel settore dei pesticidi”. Conclusa l’operazione, il gruppo dovrebbe creare tre nuove società indipendenti, leader dei settori della scienza dei materiali, l’agrochimica e l’energia.
E per la fine dell’anno dovrebbe diventare realtà anche la fusione tra Bayer e Monsanto (rilievi della Commissione europea permettendo, ndr), in seguito all’accordo da 66 miliardi di dollari firmato nel settembre 2016 per l’acquisizione della multinazionale canadese da parte dei tedeschi. Nascerebbe così un nuovo leader mondiale dell’agroindustria, con un valore stimato in 85 miliardi di euro, che promette “nuove soluzioni e tecnologie sostenibili per permettere ai coltivatori di produrre di più con meno”, grazie all’unione del comparto agrochimico di Bayer con le sementi e le tecniche di agricoltura digitale di Monsanto.
Sulla corporation canadese, cinque giudici di fama internazionale hanno emesso lo scorso aprile un parere consultivo a seguito del “Monsanto tribunal” (www.monsanto-tribunal.org) tenutosi all’Aia con l’obiettivo di dare un parere legale sui danni ambientali e sanitari causati dall’agroindustria.
Secondo i giudici, con il suo operare Monsanto mette a rischio “il diritto a un ambiente sano, al cibo e alla salute, e influisce negativamente sul diritto alla libertà, indispensabile per la ricerca scientifica”. I giudici hanno anche sottolineato l’importanza di affermare il primato della legge internazionale sui diritti umani e ambientali, introducendo nel diritto penale il delitto di “ecocidio” per chi mette a repentaglio la salute umana e il futuro della terra che abitiamo.
in dettaglio
LE VARIETÀ ITALIANE DI MAIS ALLA PROVA DELLA SPERIMENTAZIONE
Rettangoli da 7 metri per 15, orientati Nord-Sud, “fazzoletti di terra” biodiversa. Ne possiamo contare 380 in 12 diverse Regioni italiane, 10 in ciascuna delle 38 aziende agricole coinvolte nell’ultimo progetto partecipativo sui mais di Rete semi rurali, da un’idea del Distretto di economia solidale della Brianza, con la collaborazione del Crea (il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), il più importante ente di ricerca agroalimentare d’Italia, che nella sede di Bergamo ha un’unità di ricerca per la maiscoltura.
Dopo la sperimentazione fatta nel 2016 -su 17 aziende della fascia prealpina nelle province di Lecco, Como, Monza e Bergamo, con 7 varietà di mais-, la rete si è estesa a tutto il Paese e lo scorso maggio ciascuno dei 380 rettangoli è stato seminato con un incrocio di varietà locali di mais e lungo il bordo è stato messo un mais precoce: il Marano (selezionato a inizio Novecento nel vicentino) o il Nostrano dell’isola (un mais da polenta della zona di Bergamo). In tutto si potranno confrontare 190 varietà di mais, che sono state seminate anche al Crea di Bergamo in un unico campo sperimentale.
Come è stato già fatto da Rete semi rurali sui frumenti, con questa tecnica si valorizzano le varietà locali direttamente in campo, coinvolgendo gli agricoltori soci della rete e affiancando alla loro esperienza la volontà d’innovazione del Crea. “Obiettivo del progetto è osservare le potenzialità ancora inespresse delle varietà locali italiane, selezionandole in base alle caratteristiche migliorative che si potrebbero esprimere dall’incrocio naturale tra più varietà”, spiega Giuseppe De Santis di Rete semi rurali. Degli incroci saranno studiati -insieme agli agricoltori- l’aspetto agronomico, la resistenza alle malattie, la produttività, i possibili usi e i valori nutrizionali. Inoltre, avendo la possibilità di osservare come si comportano i mais nelle diverse zone d’Italia, saranno fatte delle comparazioni sui diversi ambienti e modelli di gestione dei terreni.
Il blog del progetto è www.letscultivatemais.blogspot.it.
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