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L’iniquità dello sviluppo residenziale a Milano, conti alla mano 

Il cantiere del "Bosco Navigli" a Milano, sotto indagine da parte della magistratura © Duilio Piaggesi / Fotogramma

Uno studio promosso dal Consorzio cooperative lavoratori in collaborazione con la cooperativa Libera unione mutualistica mostra il vero “profitto” che si ottiene attraverso un’operazione di sviluppo immobiliare residenziale nel capoluogo lombardo e mette sotto la lente la “rendita fondiaria”. Evidenze che richiamano gli oneri di conoscenza e regolazione nel segno dell’equità in capo alla Pubblica amministrazione

La questione della casa “scalda” sempre di più gli animi, in tutta Italia e non solo a Milano. La città però mantiene il primato di attrazione degli investimenti finanziari nel settore immobiliare, incrementata nella fase recente del dopo-Expo del 2015 in cui, secondo i dati raccolti dall’Istat e da noi elaborati per l’Osservatorio casa abbordabile, sono stati richiesti in media permessi per costruire circa tremila alloggi l’anno, ma con un contributo minore delle cooperative e nullo degli enti pubblici.

Questa fase immobiliare “espansiva” che ha creato una forbice crescente tra valori immobiliari e salari, non si è però accompagnata a sufficienti politiche di recupero di risorse per servizi pubblici e abitativi per lavoratori e nuclei a basso reddito, come abbiamo argomentato nel libro “Milano per chi?” (Bricocoli, Peverini, 2024). 

In questo contesto, in cui una parte crescente dell’opinione pubblica e degli attori cittadini si rende ormai conto degli effetti distorsivi di un’attrattività non regolata, ha fatto discutere il documento curato dal professore Carlo Cottarelli dell’Università Cattolica di Milano sulle performance economiche dello sviluppo residenziale a Milano, “promosso” da tre organizzazioni di operatori immobiliari e costruttori e pubblicato sul sito dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani.

Con il laconico titolo di “Alcune considerazioni sullo sviluppo immobiliare a Milano”, attraverso alcune semplici analisi su un caso teorico di conto economico di un’ipotetica operazione immobiliare -con dati di partenza tuttavia discutibili, come vedremo- sosteneva che “l’imposizione di vincoli di Edilizia residenziale sociale (Ers) al di sotto dei 10mila metri quadrati, se non per percentuali contenute, renderebbe non realizzabili progetti di sviluppo immobiliare a Milano” e proponeva, tra le altre cose, “una riduzione della quota in Ers” nel piano urbanistico di Milano (Piano di governo del territorio, Pgt). 

In un precedente articolo pubblicato su Altreconomia, reagendo a questo documento, con Alberto Bortolotti abbiamo sostenuto -sulla base di ampia letteratura scientifica- che il problema dei prezzi delle abitazioni a Milano sia causato primariamente dall’incidenza della rendita immobiliare (e finanziaria) sui costi finali e non, come sembra suggerire il dossier di Cottarelli, da prelievi o vincoli troppo onerosi da parte della pubblica amministrazione.

Il 28 novembre si è aggiunta un’ulteriore voce a questo dibattito. Alessandro Maggioni, presidente del Consorzio cooperative lavoratori (Ccl), in collaborazione con Vincenzo Barbieri della cooperativa Libera unione mutualistica (Lum), ha presentato in una conferenza stampa il documento “L’iniquità dello sviluppo residenziale a Milano”, redatto in risposta a quello di Cottarelli.  

Il grafico mostra il numero di permessi per costruire alloggi nel Comune di Milano dal 2011 al 2021, distinti per tipologia di richiedente (cooperativa, ente pubblico o privato) e andamento percentuale di quelli richiesti da cooperative di abitazione (asse destro). Elaborazione Oca su dati del Comune di Milano (nuova costruzione e ampliamento) raccolti per Istat. Fonte: M. Bricocoli, M. Peverini (2024), “Milano per chi? Se la città attrattiva è sempre meno abbordabile”, Letteraventidue Siracusa

Per capire di chi stiamo parlando, Ccl sviluppa iniziative residenziali rivolte ai propri soci, primariamente in proprietà secondo il modello della cooperazione “divisa” -secondo cui i soci si uniscono in cooperativa, mettendo insieme le risorse per la costruzione, e la cooperativa si scioglie con la consegna degli alloggi- ma anche in locazione, prevalentemente in regime di Edilizia residenziale sociale, e cioè a costi calmierati. Lum invece ha una solida tradizione di cooperazione “indivisa”, che è un titolo di godimento specifico -poco noto perché conta meno dell’1% delle abitazioni a Milano- in cui le abitazioni vengono costruite con un investimento da parte della cooperativa, in regime di proprietà collettiva, e vengono assegnate ai soci in godimento a condizioni contrattuali particolarmente favorevoli per gli inquilini.

Insieme, hanno promosso e finanziato presso il dipartimento di Architettura e studi urbani l’Osservatorio casa abbordabile (Oca), coordinato dal professore Massimo Bricocoli e in cui fa ricerca chi scrive, che raccoglie e analizza i dati su costi abitativi e salari. 

Entrambi questi attori, in quanto cooperative -come stabilito dalla Costituzione- operano in assenza di profitto: dunque, il prezzo o il canone delle abitazioni assegnate ai soci servono al massimo a coprire i costi di realizzazione e gestione. È proprio questo carattere di operatori no profit che permette a queste due realtà (e alle tante cooperative di abitazione di Milano) di fare luce su un aspetto finora opaco: il “profitto”, cioè l’utile che si ottiene attraverso un’operazione di sviluppo immobiliare residenziale. Il documento, attraverso l’esperienza diretta e concreta di sviluppo di edifici per abitazioni a Milano di queste due cooperative e del supporto di vari esperti del settore, conti alla mano, aggiunge un tassello al dibattito facendo emergere il “profitto” delle operazioni immobiliari a Milano

Il documento riprende la struttura di quello di Cottarelli, considerando però difficile stimare seriamente e realisticamente il “fabbisogno abitativo” posto che “non esistono fonti autenticamente indipendenti che monitorino il bisogno di case”, e riesegue l’analisi economica dei casi teorici di sviluppo residenziale a Milano ipotizzati dallo studio di Cottarelli. Fa cioè qualcosa che non si fa quasi mai nel dibattito pubblico: dato un posizionamento, articola una risposta guardando a dati di partenza verificabili, e confuta oppure conferma le asserzioni sulla base dell’analisi (processo alla base del metodo scientifico).

Si tratta di un’attività faticosa, e probabilmente di minore impatto comunicativo rispetto agli annunci “di parte” che si susseguono sui media, ma onorevole poiché alimenta la trasparenza e il confronto che è essenziale per un vero dibattito democratico. Di solito, invece, si assiste alla presa di posizione dei vari attori, in base all’interesse che rappresentano e al loro “peso” mediatico, in un contesto generale di incomunicabilità e confusione e con risultati pessimi per il dibattito pubblico. 

Nel documento vengono dunque corretti alcuni parametri di partenza dello studio di Cottarelli -in particolare viene riformulato il costo delle aree, alzandolo, e il costo di costruzione, abbassandolo- e viene rifatto il conto economico dell’operazione sulle stesse premesse e per due diversi scenari.

Il contesto è quello di un’operazione residenziale di 9.999 metri quadrati di superficie lorda -corrispondenti a circa 13.500 metri quadrati di superficie commerciale, o 135 appartamenti- su un terreno da recuperare (es. ex opificio) in un quartiere non centrale di Milano. Dato che in questo caso la versione ancora vigente del Piano di governo del territorio di Milano non prevede di destinare una parte degli alloggi a Edilizia residenziale sociale (che invece è richiesta per interventi superiori a 10mila metri quadrati), le abitazioni vengono vendute in “edilizia libera” il cui prezzo viene stimato in 4.800 euro al metro quadrato, e i box auto a 35mila euro l’uno. 

Secondo lo studio di Maggioni, su un’operazione siffatta con un investimento di circa 62 milioni di euro è possibile realizzare ricavi per circa 69 milioni di euro, il che significa un profitto (prima della tassazione sul reddito) di circa 7,6 milioni di euro e un tasso di profitto del 10,9%, quando Cottarelli stimava per la stessa iniziativa “solo” 5,9 milioni di euro di profitto e un relativo tasso dell’8,6%.

Ciò significa, come sostiene lo studio di Maggioni e contrariamente a Cottarelli, che i margini di profitto dello sviluppo immobiliare residenziale a Milano sono senz’altro “robusti”. Inoltre, secondo la nuova analisi, se sulla stessa operazione fosse previsto un requisito del 30% in Edilizia convenzionata ordinaria -che non è edilizia residenziale sociale ma un’offerta in vendita “scontata” sul prezzo di mercato- il profitto sarebbe appena più basso che senza il requisito, e ancora robusto: sei milioni di euro, per un tasso di profitto del 9,6%. 

Dei 69 milioni di euro di ricavi dell’operazione, poi, solo 3,4 milioni (meno del 5%, in linea con quanto calcolato dall’economista del Politecnico di Milano Roberto Camagni) vengono recuperati dal Comune sotto forma di oneri di urbanizzazione e contributo sul costo di costruzione, utilizzabili per la realizzazione di infrastrutture, spazi e servizi pubblici necessari per la vita della città e i cittadini.

Questo basso prelievo, sosteneva qualche anno fa proprio Camagni, è ingiusto in quanto quell’incremento non è realizzato dai privati ma dalla città nel suo complesso e antieconomico perché non permette al settore pubblico di fornire i servizi e le infrastrutture necessarie al funzionamento della città, inclusa l’edilizia sociale, e alla lunga crea problemi alla città nel suo complesso. Dunque, si può aggiungere sulla base dello studio, e in linea con quanto sostenuto da Camagni e molti altri studiosi, che le operazioni di sviluppo residenziale a Milano si prestano a un prelievo maggiore, che sia in termini di edilizia sociale o in termini di oneri di urbanizzazione (che solo recentemente sono stati innalzati).

Infine, è interessante mettere a fuoco un aspetto su cui entrambi gli studi permettono di fare i conti, ma che non prendono in considerazione in modo diretto. Il valore di acquisto del terreno, o meglio del suo “potenziale edificatorio” prima ancora che su questo venga mossa una sola pietra, pesa nell’operazione di riferimento ben 9,4 milioni di euro -il 15% del totale dei costi e circa 700 euro per metro quadrato di superficie commerciale- che finiscono direttamente nelle mani dei proprietari dell’area senza che questi abbiano fatto nulla.

Si tratta proprio della “rendita fondiaria”, cioè di quella componente che il padre dell’economia liberale Adam Smith identificava come improduttiva e parassitaria -sostenendo che lo Stato dovesse recuperarla totalmente- e che negli anni del Dopoguerra rappresentava il fulcro del dibattito urbanistico (italiano e non solo). Ebbene il terreno, come si può vedere, pesa sui costi finali perfino più del profitto dello sviluppatore, a fronte di una tassazione fondiaria e patrimoniale piuttosto bassa in Italia.

Non solo il già citato Roberto Camagni, ma anche ampia letteratura internazionale e perfino studi sostenuti dall’Ocse, sostengono infatti che un cardine imprescindibile per far funzionare in modo equo le città è proprio recuperare quanto possibile della rendita fondiaria e contenere il profitto immobiliare a livelli che non deprimano il settore ma che non siano troppo alti, possibilmente attraverso la collaborazione del settore no profit.

La città di Vienna viene spesso citata come caso esemplare di città che è in grado di tenere bassi i costi di accesso alla casa, e non a caso lo fa proprio limitando la speculazione fondiaria e agevolando gli operatori cooperativi e no profit, oltre all’edilizia pubblica. Attraverso il piano urbanistico, che impone tra il 60% e il 70% di edilizia sociale nei nuovi sviluppi, e gli acquisti diretti da privati prima dell’apposizione dell’edificabilità, l’agenzia pubblica Wohnfonds rende disponibili lotti per l’edilizia sociale al costo fissato di 188 euro al metro quadrato di superficie lorda, il che permette di tenere bassi i canoni di locazione (lì si parla perlopiù di affitti) e di aumentare la qualità degli interventi e la quantità spazi e servizi comuni. Per inciso, in Austria il settore regolato dei gestori abitativi no profit è molto importante, e visto che statutariamente può chiedere agli utenti finali solo le spese effettivamente sostenute o da sostenere funge da riferimento rispetto alla fattibilità economica degli interventi residenziali in assenza di profitto.

In quest’ottica, possiamo addirittura immaginare che vincoli di edilizia residenziale sociale più elevati a Milano potrebbero avere in realtà l’effetto di abbassare il costo dei terreni edificabili, a tutto vantaggio di sviluppatori -soprattutto quelli no profit- e utenti finali. Su questo sarebbe utile aprire un dibattito e fare qualche studio. L’ideale, come insegna Vienna, è coniugare una politica fondiaria attiva -attraverso quote di edilizia sociale sugli sviluppi privati, e possibilmente la messa a disposizione di immobili o aree pubbliche (già edificate) da trasformare, per lo sviluppo di affitto sociale- insieme alla promozione di sviluppatori senza fine di lucro.  

Lo studio di Maggioni, infatti, rivela il piano economico di un’iniziativa di sviluppo residenziale reale -e non teorica come la precedente- riguardante il recupero a residenziale di un terreno ex industriale in una zona semi-centrale di Milano, per un’edificabilità complessiva di 9.256 metri quadrati di superficie lorda, acquistato dalla cooperativa per circa 13 milioni di euro, cioè oltre 1.500 euro al metro quadrato di superficie commerciale, che vanno al proprietario del terreno prima di muovere una sola pietra.

Lo sviluppo è stato convenzionato, a differenza del caso precedente, prevedendo che il 34% della parte residenziale sia destinata a edilizia residenziale sociale, di cui due terzi in vendita come convenzionata agevolata o in patto di futura vendita a soli 2.750 euro al metro quadrato, e un terzo in affitto a canone convenzionato di massimo 110 euro al metro quadrato all’anno (cioè circa 500 euro al mese di canone per un bilocale).

Ebbene, il business model senza profitto della cooperativa permette di assegnare la restante parte degli alloggi, in “edilizia libera” e dunque senza vincoli al prezzo, a soli 4.700 euro al metro quadrato, in una zona in cui i prezzi di vendita del nuovo sono di oltre settemila euro al metro quadrato. Cioè almeno duemila euro al metro quadrato in meno rispetto a quanto chiederebbe uno sviluppatore for profit, che chiedendo 6.800 euro al metro quadrato (dunque in linea con il mercato) realizzerebbe un profitto che oscilla tra i 13,8 e il 17,6 milioni di euro.

In altre parole, rinunciando a questo profitto la cooperativa fa risparmiare ai propri soci 2.100 euro al metro quadrato per l’acquisto dell’abitazione. Questa operazione, reale, fa emergere chiaramente quali siano i margini di profitto delle operazioni immobiliari degli operatori di natura commerciale. 

È bene ricordare che la crisi abitativa, a Milano come nel resto d’Italia, affligge primariamente chi non può permettersi di acquistare l’abitazione, cioè chi vive in affitto, oppure rimane nella casa di famiglia perché appunto non può uscirne. In questo senso, va nella giusta direzione il “Piano straordinario” sulla casa lanciato dal neo-assessore alla casa del Comune di Milano Guido Bardelli, delineando nuove politiche a “regia pubblica forte” che possano aumentare l’offerta in affitto sociale in edilizia residenziale pubblica e a canone calmierato.

Posto però che, purtroppo, il mercato residenziale in Italia è primariamente di acquisto -e la maggior parte dei soldi passano dalle compravendite-, questi dati ci permettono di visualizzare l’entità del valore monetario di cui si appropriano sviluppatori e proprietari nella Milano dei valori crescenti e dei salari stagnanti, e che comunque si riflettono nei canoni di affitto delle abitazioni quando vengono messe in locazione o costruite come build to rent. Se è vero che l’interesse delle politiche pubbliche deve essere la messa a disposizione di alloggi in affitto sociale permanente, sarebbe comunque giusto quanto meno fare luce sull’appropriazione di valore immobiliare e sugli effetti di questa sul mercato, incluso il fatto che allargandosi la fascia di coloro che non possono acquistare l’abitazione, si accresce la concorrenza sulla già esigua offerta in affitto.  

In quest’ottica, mi sembra che la proposta del report di Maggioni di richiedere che gli operatori forniscano un piano economico anche per le operazioni in edilizia libera permetterebbe di accrescere la trasparenza del settore e di far emergere l’entità del profitto immobiliare. Più in generale, la Pubblica amministrazione dovrebbe dotarsi quanto prima di apparati conoscitivi e regolativi strutturati per conoscere le condizioni economiche reali dello sviluppo immobiliare e conseguentemente per regolare le condizioni e i margini di profitto a un livello equo, in linea con i migliori esempi europei e che non impatti eccessivamente nelle tasche dei lavoratori, e per recuperare una giusta quota del valore che viene generato collettivamente da quel grande bene comune che è la città.

Marco Peverini è ricercatore RTDa presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Urban Planning, Design and Policy, con una borsa sostenuta dal Consorzio Cooperative Lavoratori di Milano. Si occupa della relazione tra politiche abitative e città, con particolare riferimento al tema dell’housing affordability, e dal 2022 svolge la sua ricerca nell’Osservatorio casa abbordabile (Oca) di Milano. È membro del Collettivo per l’Economia Fondamentale e co-coordinatore del gruppo Social housing: institutions, organisation, and governance del European Network for Housing Research (Enhr).

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