Diritti / Inchiesta
Il contratto fantasma tra Medihospes e la prefettura di Roma per i centri in Albania
A un mese dall’arrivo dei primi naufraghi a Shëngjin e a più di sei dall’aggiudicazione della gara, l’ufficio del Viminale non ha ancora siglato il contratto con la cooperativa che si è aggiudicata il bando da oltre 133 milioni di euro. Un’anomalia amministrativa. Intanto 13 organizzazioni della società civile chiedono alle realtà medico-sanitarie di non rendersi “complici” del protocollo
Solo un verbale di esecuzione in urgenza: tra la prefettura di Roma e Medihospes, la cooperativa sociale che ha vinto l’appalto da oltre 133 milioni di euro per la gestione dei centri per migranti in Albania, non è stato ancora siglato alcun contratto.
A oltre un mese di distanza dall’arrivo delle prime 16 persone nei centri di Shëngjin e Gjadër ma soprattutto a più di sei mesi dall’aggiudicazione della gara pubblica. “Uno schema molto insolito”, osserva l’avvocata Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Secondo il codice degli appalti infatti è previsto che dal momento dell’aggiudicazione la stazione appaltante -in questo caso la prefettura di Roma- entro sessanta giorni stipuli il contratto con chi ha vinto la gara pubblica: un termine ampiamente superato dall’aggiudicazione da parte della Cooperativa sociale Medihospes del 16 aprile 2024. Un ritardo facilmente imputabile alle lungaggini dei lavori di allestimento dei centri, che hanno fatto slittare l’inaugurazione alla metà di ottobre. Sei mesi di limbo che non hanno però impedito alla cooperativa romana di procedere, da un lato, con l’apertura a metà luglio di più di cento posizioni lavorative e soprattutto con la creazione di una “succursale” albanese per la gestione dei centri. Il tutto sulla “fiducia”, senza alcun contratto firmato. Infatti a metà novembre la prefettura di Roma ha fatto sapere formalmente ad Altreconomia di non aver ancora stipulato né sottoscritto alcun contratto con la cooperativa aggiudicataria della gara.
“Ritardare in questo modo la stipula del contratto contraddice apertamente il carattere d’urgenza che ha connotato tutta l’avventura albanese, a partire dalla decisione di indire una procedura negoziata senza pubblicazione di bando”, aggiunge Brocchetto. Da un punto di vista giuridico, l’aver superato i termini di legge potrebbe essere giustificato dalle deroghe al codice degli appalti previste espressamente proprio dal protocollo Italia-Albania che autorizza all’esecuzione dei contratti “anche in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale”.
Quello che dovrebbe essere stato siglato è una sorta di verbale d’urgenza con cui è stato riconosciuto a Medihospes, a partire dalla consegna delle strutture, l’importo “parametrato” sulla ridottissima capienza con cui il centro è stato aperto.
“Una ‘deroga’ è per definizione un’eccezione e quindi quella al codice degli appalti, anche se ammessa dalla legge italiana di ratifica del protocollo Italia-Albania, deve essere giustificata dall’urgenza o comunque dall’impossibilità di attuarlo rispettando il codice e sempre comunque nei limiti strettamente necessari. Presupposti che non si comprendono in presenza di una procedura negoziata già conclusa con l’aggiudicazione”, spiega Francesca Dealessi, avvocata di Torino ed esperta di diritto amministrativo.
Insomma, i punti interrogativi sono molti. “Sebbene l’area del Cpr e quella funzionante come carcere non siano ancora operative, tutto è già pronto per un potenziale utilizzo -spiega Francesco Ferri, esperto di migrazioni di ActionAid Italia, che ha visitato i centri albanesi insieme a una delegazione del Tavolo asilo e immigrazione e ad alcuni parlamentari-. Il centro di Gjäder è in piena fase di ampliamento: ho osservato un cantiere a cielo aperto, destinato a occupare una porzione sempre più vasta della campagna circostante il piccolo centro abitato”.
Nel capitolato della gara d’appalto è prevista la possibilità di assicurare “una ricettività progressiva rispetto a quella massima prevista, nelle more del completamento dei lavori di allestimento degli stessi”. La latitanza della prefettura di Roma nel seguire questa via potrebbe anche essere legata alla “fragilità” del modello Albania, il cui funzionamento è stato nuovamente bloccato lo scorso 11 novembre quando il Tribunale di Roma non ha convalidato -per la seconda volta- il trattenimento di sette persone, sospendendo la decisione e rinviando alla Corte di giustizia dell’Ue a causa dei “vari profili di dubbia compatibilità con la disciplina sovranazionale”.
Intanto Medici senza frontiere e altre 13 organizzazioni hanno lanciato un appello chiedendo a tutte le realtà medico-sanitarie di non rendersi “complici” del protocollo. Secondo i firmatari, l’intesa siglata tra Roma e Tirana “viola il codice di deontologia medica e i diritti umani e mette a rischio la salute fisica e psicologica delle persone migranti”. Durante le procedure di identificazione a bordo della nave militare Libra e delle motovedette italiani non sussisterebbero “le condizioni perché possa essere effettuata una valutazione adeguata dello stato di salute di una persona” anche per la mancanza di un ambulatorio medico e di stanze che garantiscono un’adeguata tutela della privacy.
A conferma dell’inadeguatezza delle valutazioni medico-sanitarie in sede di primo assessment delle vulnerabilità l’Asgi ha ottenuto dal ministero dell’Interno le cosiddette Sop (Standard operating procedures) che descrivono le modalità con cui vengono condotte le attività di screening in mare e lo sbarco sulle coste albanesi.
La “sequenza operativa” da seguire prevede esclusivamente una “valutazione dello stato di salute generale di ciascun migrante, volto all’identificazione di condizioni di interesse sanitario meritevoli di attenzione e/o di ulteriori condizioni di vulnerabilità”. Per individuare questi profili il funzionario di polizia a bordo, con l’aiuto del team dedicato al pre-screening, raccoglie informazioni sulle nazionalità dichiarate e “su eventuali vulnerabilità immediatamente rilevabili e sugli eventuali legami di parentela per individuare nuclei familiari”.
“Non c’è una definizione della vulnerabilità di tipo sanitario e sociale -spiega il medico Nicola Cocco-. Inoltre non è chiaro da chi è costituito il team che comprende il personale sanitario e non viene mai menzionata la soggettività migrante come destinataria di una tutela, ma vengono fatte solo indicazioni generiche sulla ‘sicurezza’ a bordo”. Una procedura quindi che, come già successo, che rischia di concludersi con il trasferimento nei centri albanesi di persone vulnerabili e minori. Come previsto fin dall’inizio.
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