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Talebani normalizzati, diritti svenduti. L’errore capitale della Conferenza di Doha

© Stefano Ronchini / Ipa-Agency.Net / Fotogramma

Tra fine giugno e inizio luglio si è tenuto l’incontro internazionale che ha segnato una svolta nelle politiche occidentali verso l’Afghanistan, con la partecipazione diretta dei rappresentanti del regime e l’esclusione sistematica delle donne. Le Nazioni Unite si giustificano parlando di sviluppo economico e risposte al popolo affamato. Ma il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane smonta questa retorica

Fare finta che sia una cosa normale: è così che si accetta e si fa accettare quello che prima sembrava abominevole. Basta non parlarne, non nominarlo, parlare d’altro. Parlare di banche, droga, aiuti, cose “normali”, quotidiane, di vita e così far dimenticare l’orrore che subiscono quotidianamente le donne in Afghanistan, sottoposte al regime fanatico dei Talebani e della loro ideologia, così estrema e aberrante che persino altri regimi estremisti ne suggeriscono un limite.

L’Afghanistan è scomparso dai telegiornali e dalla politica internazionale; nessuno ne parla più, come invece è accaduto dopo la presa di potere dei Talebani, quando i Paesi “donatori” piangevano la tragica situazione del popolo affamato e delle donne schiavizzate e regalavano soldi e parole scandalizzate, come avevano fatto nei vent’anni di occupazione in cui avevano sostenuto governi così incapaci e corrotti da non avere credibilità nemmeno per loro.

La distratta condanna morale e le finte sanzioni economiche comminate al governo talebano -ogni mese l’Onu invia in Afghanistan 40 milioni di dollari- non sono state in grado di ammorbidire le leggi crudeli contro le donne e le Nazione Unite oggi dichiarano di nutrire preoccupazioni per i crimini nei confronti delle donne e della loro resistenza per poi tirare dritto sulla necessità impellente di aiutare la popolazione e contrastare il traffico di droga. Si sta cercando di ottenere la disponibilità dei Talebani a dialogare con la cosiddetta comunità internazionale e far sì che gli interessi dell’Occidente in Afghanistan continuino a essere tutelati.

In questo contesto, il 30 giugno e il primo luglio ha avuto luogo la terza Conferenza di Doha, un incontro internazionale che ha segnato una svolta nelle politiche occidentali verso quel Paese: organizzata dall’Onu per normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche con le economie occidentali, che in realtà non si erano mai interrotte per alcuni Paesi come Cina, India, Russia, Iran.

La novità è stata la partecipazione diretta dei Talebani, che nelle due precedenti conferenze non avevano accettato di partecipare, grazie all’accoglimento delle loro condizioni, finora sempre escluse, che hanno imposto di invitare solo loro come rappresentanti del popolo afghano e di non affrontare il problema dell’oppressione e dell’esclusione sistematica delle donne dall’istruzione e dalla società. Condizioni umilianti, non solo per le donne afghane ma anche per tutta la comunità democratica internazionale, ma accettate dall’Onu e da tutti gli Stati partecipanti (seppure con il dissenso del Canada).

Accettazione molto criticata da varie associazioni afghane di donne, da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e addirittura da Richard Bennett, Relatore Speciale Onu sui diritti umani in Afghanistan, (che non ha partecipato all’incontro) e che sono costate all’Onu una grossa perdita di credibilità circa il suo ruolo di difensore dei diritti umani. Persino il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (Cedaw) ha espresso profonda preoccupazione per l’esclusione di donne e ragazze dall’incontro di Doha.

Apparentemente questa Conferenza non ha sortito risultati importanti. Non ci sono stati commenti ufficiali entusiasti alla conclusione dell’incontro, niente toni trionfalistici.

Rosemary DiCarlo, sottosegretaria generale dell’Onu per gli affari politici e di pace, che ha presieduto il meeting a nome dell’Onu, ha tenuto la sua conferenza stampa in tono minore, quasi in sordina. Ha messo in evidenza che non c’è stato alcun riconoscimento ufficiale del governo de facto, che non sono state tolte le sanzioni, e che quindi i Talebani non hanno ottenuto quanto avevano chiesto.

Inoltre ha dichiarato di aver sostenuto in tutti i modi i diritti delle donne, sia direttamente nei colloqui con i Talebani, sia attraverso gli incontri, avvenuti a meeting concluso, con le donne che hanno accettato di parlare con lei (alcune si sono rifiutate per protesta), ma senza alcun risultato.

Si potrebbe dire che l’incontro sia finito con un nulla di fatto, dato che né i Talebani hanno ottenuto il riconoscimento internazionale del loro governo e la revoca delle sanzioni internazionali, né l’Onu ha ottenuto la mitigazione dei decreti contro i diritti delle donne. Ma invece un risultato importante c’è stato: è proprio ciò che DiCarlo ha chiamato, soddisfatta e orgogliosa, “la prima volta” dei Talebani, il loro primo contatto ufficiale con l’Onu, promettendo che sarà solo l’inizio.

Il vero successo è tutto dei Talebani ed è costituito proprio dall’essere stati ammessi a un incontro, per la prima volta e alle loro condizioni, con l’Onu che ha accettato pur di averli a Doha, soprassedendo all’apartheid subito dalle donne e tanto stigmatizzato dalle Nazioni unite stesse. Questa “prima volta”, tanto contrastata dalle donne e dagli attivisti per i diritti umani, rappresentava un successo già prima che la conferenza avesse luogo, per il fatto stesso di essere auspicata e cercata dall’Onu.

Bennett aveva bene espresso il sentire di tutti gli oppositori al governo de facto dell’Afghanistan e delle organizzazioni di donne, dichiarando che la rinuncia ai loro diritti era un prezzo troppo alto da pagare per avere in cambio la normalizzazione dei rapporti con i Talebani e l’ingresso nella cosiddetta comunità internazionale.

Un altro importante riflesso di questa visibilità internazionale che i Talebani hanno ottenuto nel sedersi al tavolo dell’Onu alle loro condizioni è tutto interno. Le donne che resistono e continuano a protestare a rischio della vita ora saranno ancor più duramente represse grazie a una legittimazione di fatto che la comunità internazionale ha regalato a chi devasta i diritti delle donne e del proprio popolo.

Ma come giustifica l’Onu questa svendita dei diritti delle donne? DiCarlo ha spiegato che purtroppo i Talebani non si vogliono sedere al tavolo delle trattative se ci sono le donne, quindi l’Onu è stato costretto a lasciarle fuori dalla porta. Questa frase, che fa passare questa scelta come un atto di realismo, in realtà dà per scontata la sconfitta della comunità internazionale nella difesa delle donne afghane, dimostra che ci si è già arresi al volere dei Talebani e che non si vedono alternative.

Il vero messaggio che emerge da “Doha III” sta nel dare per scontato che i Talebani abbiano il controllo del Paese, e nel riconoscere, di fatto, il loro governo, anche se lo si nega ufficialmente. L’Onu si giustifica con la necessità di favorire lo sviluppo economico dell’Afghanistan al fine di aiutare il popolo affamato, come se bastasse dialogare con i Talebani per convincerli ad avviare un “normale” processo di governo basato sui bisogni del popolo e non su quelli della sharia.

Ma non si vuole tener conto dei fatti: tutti gli aiuti finora inviati all’Afghanistan sono stati intercettati e taglieggiati dai Talebani a beneficio dell’apparato statale e dei loro fedeli funzionari mentre poco o niente è arrivato nelle mani delle persone a cui erano destinati, a dimostrazione di quanto poco importi al governo talebano il benessere del proprio popolo.

Si è visto, per esempio, come si sono comportati in occasione dei terremoti e delle alluvioni che hanno distrutto interi territori e tolto tutto alla popolazione già stremata: come numerose fonti hanno riferito, il soccorso è stato nullo o tardivo perché la logica talebana è quella di considerare le catastrofi come fenomeni naturali mandati da dio e quindi da accettare come una fatalità.

Può quindi davvero bastare l’apertura di un dialogo con i Talebani per condizionarli a cambiare la loro visione fondamentalista e teocratica e adottare una governance laica?

I soldi della Banca centrale afghana congelati dagli Stati Uniti e dai Paesi europei (circa nove miliardi di dollari), che l’Onu e diverse organizzazioni (anche italiane) chiedono di scongelare potrebbero certamente servire a dare ossigeno a una popolazione stremata da guerre e miseria, ma consegnare questi fondi ai Talebani significherebbe darli a despoti che hanno a cuore solo il mantenimento del proprio apparato e dei propri sostenitori e che taglieggiano la popolazione con balzelli, tasse e ricatti (come ha ben dimostrato questo report).

Bisogna trovare forme più dirette di sostegno alla popolazione, e bisogna colpire il governo talebano per la sua responsabilità nell’imporre un sistema di oppressione di tutto il popolo e di apartheid di genere alle donne.

Il Cisda è il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane

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