Cultura e scienza / Attualità
Niccolò Zancan. Antologia degli sconfitti
Nel suo ultimo libro, edito da Einaudi, l’inviato de La Stampa dà voce alle “solitudini” incontrate in questi ultimi anni, trasformandole in un coro di vivi che racconta la fatica del presente sotto i colpi della precarietà
Ci sono le parole del fratello di uno dei cinque operai morti nell’incidente ferroviario di Brandizzo (Torino), il pescatore di Cutro che non riesce più a fare il bagno da quando un bambino è morto tra le sue braccia nella notte del naufragio del 26 febbraio, l’uomo che ha venduto un paio di cuffiette bluetooth a un giovane gambiano morto suicida dopo l’arresto, nel carcere di Torino. E poi i vissuti, meno noti, di quelle “persone declinanti che per un accidente della vita finiscono nei guai”. Sono in totale 93 le storie che Niccolò Zancan, scrittore e inviato speciale del quotidiano La Stampa, ha scelto per dare forma ad “Antologia degli sconfitti. Cronaca quasi poetica del presente”, pubblicato da Einaudi a febbraio 2024. “Volevo provare con questo libro a raccontare la complessità, quelle storie che in un tempo odioso e feroce spesso sono schiacciate dalle urla”, spiega il giornalista.
Centinaia di storie che Zancan ha incontrato in quella Italia attraversata da Nord a Sud per raccontare le vene più profonde dei fatti di cronaca. “Mi piaceva che tutte le solitudini incontrate in questi anni diventassero un coro di vivi -spiega-, questo è un aspetto decisivo: tutte le storie, eccetto una, raccontano di persone che sono ancora qui, tra noi, ma che hanno lavori che li condannano a vivere a stento sotto il martello quotidiano della precarietà lavorativa e dell’assenza di una prospettiva”. Storie diverse di tante e tanti che hanno forse proprio questo come elemento comune: sono in gran parte dei “lavoratori poveri”, persone con “un impiego che non solo non basta all’orgoglio ma nemmeno a dormire in pace la notte” e che sono “così davanti agli occhi di tutti da risultare invisibili”.
“Antologia degli sconfitti” è un viaggio che fa entrare il lettore nella loro sofferenza, avvicinandoli, quasi d’improvviso. Ci sono i vissuti delle persone coinvolte -o colpite, direttamente e indirettamente- dai più tragici casi di cronaca italiani: e leggendo le loro storie si prende consapevolezza di sapere poco. Troppo poco, anche di quelle notizie che sono state nelle homepage per giorni nei quotidiani italiani o sono diventate virali sui social network. Fotografie, secondo Zancan, di un “eterno presente”.
Di “epoche difficili, leggermente orfane”. Questa è la frase scelta per la pagina uno, citando il giornalista Martín Caparrós, inviato del quotidiano spagnolo El País. “Mi piace molto quel ‘leggermente’ che dà un tocco di dolcezza a questo tempo che vive una contraddizione -racconta-. Da un lato non siamo stati capaci di ‘ammazzare’ i nostri padri, da un punto di vista psicanalitico, e quindi la mia generazione non ha voluto assumersi le responsabilità politiche lasciando troppo spazio ai più vecchi. Dall’altro però siamo orfani, smarriti. Non c’è una rotta da seguire e non si sa quale sia il senso che ci muove”. E quando c’è, a volte questa direzione è spaventosa. Lo racconta bene una piccola notizia di cronaca che per Zancan diventata illuminante.
“Volevo provare con questo libro a raccontare la complessità, quelle storie che in un tempo odioso e feroce spesso sono schiacciate dalle urla”
A fine gennaio 2021 legge su un giornale locale di Torino, dove vive, che alcuni residenti di un quartiere cittadino hanno costruito un muro per proteggersi “contro il degrado, gli spacciatori e le prostitute”. È un “taglio basso” che nel linguaggio giornalistico significa un’informazione di scarsa rilevanza. Ma per lo scrittore, invece, non lo è. “Stavamo uscendo dalla pandemia e tutti avevamo l’ansia di scappare lontano, di riscattare quella libertà a cui avevamo dovuto rinunciare. E invece questo condominio aveva deciso di costruire un muro. Avrei voluto chiamare quel pezzo ‘la guerra sotto casa’” in cui, come in tutti i conflitti, nessuno vince. “Escono sconfitti quelli che da una parte non vedevano più l’orizzonte a cui erano abituati, ma anche chi dal lato opposto del muro restava lì. Così come le istituzioni che avevano dovuto arrendersi”. E per Zancan c’è un aspetto di questa storia che incontra la sua personale che lo colpisce in modo particolare. “Per me quello che vedo dalla finestra è fondamentale. E credo cambi il destino delle persone: avere il mare davanti o meno può cambiartelo. In questo caso i condomini avevano deliberatamente scelto di vedere un muro”. E di non vedere di riflesso gli invisibili.
Zancan dedica l’epilogo del libro a un momento che per lui è un punto di non ritorno del giornalismo ma anche una cartina al tornasole della società in cui viviamo. Lo chiama “il giorno del nostro funerale” riferendosi ai quotidiani ed è quello in cui, tra il 2009 e il 2010, i “correttori di bozze” vengono trasferiti ad altro incarico. “Loro erano i guardiani delle parole, si prendevano cura dei pezzi. Un lavoro antico dentro al mondo nuovo”, racconta lo scrittore, a cui però la crisi dell’editoria decide di rinunciare. “E forse è proprio il tempo della cura a cui ognuno di noi rinuncia è la nostra più grande sconfitta. Penso alla musica che diventa una rotazione dettata dall’algoritmo e non un disco. Sì, forse la mia è nostalgia per un tempo che non c’è più. Ma questa cosa sento che ci manca tantissimo. L’ho visto nei volti delle persone ascoltate in questi anni di cui racconto le storie nel libro”.
Viene da chiedersi, forse, chi siano davvero gli sconfitti di questo tempo. Zancan ha scelto di chiamare così coloro che sono condannati a un eterno presente. I professori delle scuole medie con stipendi da fame, i giornalisti pagati 15 euro a pezzo, gli avvocati che non riescono ad accaparrarsi clienti fagocitati dai “vecchi” colleghi, i metalmeccanici in cassa integrazione così come i baristi stagionali e i rider che garantiscono le consegne a domicilio. “Una volta nei giornali c’era la categoria degli ultimi, pessimo stereotipo.
Ma il punto è che sempre di più si parlava dei penultimi, terzultimi, quartultimi. Sono loro gli sconfitti, quelli schiacciati nell’oggi che non riescono a inseguire e realizzare il cambiamento e sono obbligati a stare fermi. Non mi piace in termini assoluti il senso della ‘sconfitta’ ma oggi per il mondo vince chi è visibile, chi ha seguaci, che riesce a farsi un nome. Io racconto chi esce da questo binario”.
La penna di un cronista vero, rarità di questi giorni, diventa così la via per guardare la vita di chi sta ai margini. E riflettere anche sul ruolo dell’informazione oggi. Zancan fa un salto indietro, cita il reportage di Dino Buzzati da Albenga che racconta l’incidente marittimo avvenuto il 16 luglio 1947 che provocò la morte di 84 ragazzi tra i quattro e i tredici anni e il pezzo scritto da Giampaolo Pansa poche ore dopo la tragedia del Vajont. Esempi di un giornalismo, secondo lo scrittore, che ha tanto da insegnare ma che è ormai superato. “Pensiamo alla famosa frase che scrive Pansa come attacco dell’articolo ‘scrivo da un paese che non esiste più’. Oggi è anacronistico pensare a qualcosa di simile. Quando arrivi sul posto ci sono già decine di foto online. Allora il tuo compito, per lo meno quello che io cerco di fare, è quello di traduzione. Prendere dalla complessità delle cose, dalle grida che rimbalzano e trasformarle in un racconto profondo e vero. Seppure con la parzialità che caratterizza inevitabilmente lo sguardo di ogni essere umano”.
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