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Finanza / Opinioni

Gli Etf e l’illusione della finanza senza guai

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Presentati come titoli-panacea per i piccoli risparmiatori, rischiano in realtà di essere un ulteriore strumento di monopolio per i grandi fondi. Una bolla da 12mila miliardi di dollari. La rubrica di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 271 — Giugno 2024

Gli Etf sono strumenti finanziari nati negli anni Novanta ma scarsamente utilizzati ancora nel 2014, quando valevano poco più di 2.600 miliardi di dollari. Oggi il loro valore sfiora i 12mila miliardi e la loro ascesa è rapidissima. Si tratta di strumenti che replicano un indice in maniera passiva; hanno quindi bassi costi di gestione in quanto non prevedono una vera e propria intermediazione. In sintesi, costano poco, replicano un indice, e quindi consentono di investire su un paniere di titoli, e ormai sono disponibili anche al più piccolo dei risparmiatori.

Sembrano interpretare la democratizzazione della finanza; in questo modo peraltro sono raccontati da vere e proprie campagne di comunicazione dai grandi media e dalle piattaforme social che ospitano, ormai, un’estesa pubblicità di simili prodotti. La loro diffusione, in realtà, è fondamentale soprattutto per i grandi fondi, che non a caso ne sono i principali produttori, perché fornisce loro un’immensa liquidità che naturalmente si indirizza verso le società che compongono gli indici selezionati dagli Etf e pertanto verso quelle società, presenti negli indici in questione, possedute dai fondi stessi. Un esempio per essere più chiari. Esistono Etf che replicano l’indice S&P500, dove sono quotate le principali società mondiali (Apple, Microsoft, Alphabet, etc.).

Questi Etf sono venduti da BlackRock, Vanguard e altri fondi che sono i principali azionisti delle società quotate allo S&P500: in tal modo i fondi attirano centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori con uno strumento poco costoso e, all’apparenza, poco rischioso. E con queste risorse fanno volare il valore delle azioni delle società presenti nell’indice di cui gli stessi fondi sono proprietari.

A tal riguardo sono possibili due ulteriori considerazioni. La prima consiste nel fatto che la narrazione e la promozione degli Etf come panacea per i piccoli risparmiatori è condotta, con cura, da testate giornalistiche e da piattaforme nel cui azionariato hanno un ruolo rilevante proprio i grandi fondi produttori di Etf. La seconda considerazione si lega alla prerogativa che hanno le impennate del valore azionario di pochi titoli, molto capitalizzati, di far schizzare in alto gli indici di Borsa.

Gli Exchange traded fund sono fondi comuni di investimento negoziati in Borsa come una singola azione e possono essere acquistati e venduti in tempo reale sui mercati regolamentati, al pari delle azioni. Sono caratterizzati da bassi costi di gestione e replicano in maniera passiva l’andamento di un indice di mercato

Ciò è particolarmente funzionale per gli Etf perché se i grandi fondi impegnano gran parte della liquidità di cui dispongono sui titoli più capitalizzati hanno gioco facile nel far salire il valore dell’indice che li contiene e di conseguenza nell’apprezzare gli Etf, destinati a diventare sempre più appetibili. Lungo questa strada, con uno strumento dell’ingegneria finanziaria, sapientemente raccontato, il potere dei monopolisti assume sembianze “democratiche”, rendendo popolare un investimento i cui giganteschi volumi vanno a enorme beneficio delle “Big three” (con State Street) e di pochi altri ricchissimi soggetti, messi nelle condizioni di dettare le regole della politica economica e finanziaria globale.

Una notazione specifica merita una vicenda italiana. Le fondazioni bancarie in Italia sono una novantina e hanno un patrimonio intorno ai 40 miliardi di euro. Investono ben oltre il 40% delle proprie risorse in strumenti finanziari come gli Etf in gran parte legati a indici statunitensi. Forse una riflessione in merito sarebbe necessaria, data la rilevanza sociale di simili istituzioni.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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