Cultura e scienza / Opinioni
Il paradosso della nostra memoria coloniale
Le nostre città sono piene di vie e luoghi dedicati alla celebrazione di battaglie ed eventi tragici. Un tema che non scandalizza quasi nessuno. La rubrica di Tomaso Montanari
La partecipazione del nostro Paese alla corsa europea per razziare le ricchezze africane fu goffa e tardiva, ma non si caratterizzò certo per maggiore umanità. “Un mito duro a morire” è la seconda parte del titolo del saggio “Italiani? Brava gente” (Neri Pozza, 2005) con cui lo storico Angelo del Boca ha dimostrato che gli italiani in Africa non lo furono affatto. Nonostante la costante opposizione delle sinistre e di qualche intellettuale, gli italiani prima hanno silenziosamente accondisceso all’imperialismo coloniale e poi hanno cercato di rimuoverne la memoria.
Anche oggi, mentre giustamente la maggior parte condanna l’invasione dell’Ucraina (Stato sovrano) da parte della Russia, quasi nessuno si scandalizza se le nostre strade, le scuole e il nostro patrimonio culturale glorificano ancora le ripetute invasioni di Stati sovrani africani. Gli stessi italiani secondo cui (nel migliore dei casi) dovremmo aiutare “a casa loro” i migranti africani dimenticano che “a casa loro” ci siamo andati noi, per renderla “casa nostra” con inaudita, inarrestabile violenza. Eppure, non solo non si parla (o quasi) del nostro efferato colonialismo a scuola, ma anche il discorso pubblico è impermeabile, quando non esplicitamente revisionista o neocolonialista. Come giudicheremmo un serial killer che si dicesse pentito, ma indicasse ancora alcune stanze della sua casa con i nomi delle località in cui ha compiuto i suoi omicidi più efferati?
Eppure, le nostre città sono piene di vie intitolate all’Amba-Aradan, il luogo in cui si combatté la battaglia del 1936 durante la quale il maresciallo Pietro Badoglio fece bombardare con l’iprite le colonne etiopi in ritirata. Quando arriviamo a Roma in treno sbarchiamo nella piazza dei Cinquecento: i caduti nella battaglia di Dogali nel 1887 in Eritrea. A Trastevere, sulla facciata della caserma in via Anicia, una lapide ricorda i 300 bersaglieri che il 6 ottobre 1911 varcarono quella porta “Accorrenti alla guerra di Libia”. Giusto e pio ricordare quell’assurdo sacrificio, ma è corretto farlo proclamando ancora che “Avvolti da orde barbariche / combatterono fortemente / gloriosamente caddero”?
Davvero erano “barbare” le truppe africane che difendevano la loro terra invasa? Davvero fu “gloriosa” la morte cui furono consegnati per le ambizioni coloniali dei loro governanti? Non dovremmo forse accompagnare a quella lapide un’altra iscrizione, che rimetta le cose in una prospettiva giusta? Anche dietro casa mia, in piazza Tasso a Firenze, commemoriamo gli italiani che “caddero in terra d’Africa” continuando ad affermare, con la solennità dell’epigrafia monumentale, che “riapparve l’impero sui colli fatali di Roma” datando ancora quella memoria “all’anno XIV dell’era fascista”. Quei morti non avrebbero diritto, almeno oggi, a un po’ di verità? A pochi metri dalla mia università, a Siena, un bar si chiama, disinvoltamente, “Impero” e sulla piazza del rettorato si affaccia una caserma intitolata a Roberto Bandini, medaglia d’oro a El Alamein.
Si potrebbe andare avanti per centinaia di pagine, anche grazie al mirabile sito “Viva Zerai”, curato dallo scrittore Wu Ming 2, che offre un’accurata mappa interattiva della topografia colonialista italiana. Il paradosso è che questo impressionante “pieno” di memoria materiale e oggettiva corrisponde a uno spintissimo “vuoto” di memoria viva e soggettiva, anzi a una sostanziale rimozione collettiva: appunto come un serial killer che rimuova costantemente i propri delitti, nonostante i (o forse proprio grazie ai) nomi di molte delle stanze in cui vive.
Tomaso Montanari è storico dell’arte e saggista. Dal 2021 è rettore presso l’Università per stranieri di Siena. Ha vinto il Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra
© riproduzione riservata