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Allevamenti intensivi di polli: è l’Europa a chiedere di ridurre gli animali. Anche per il clima

© Nighthawk Shoots - Unsplash

La densità dei polli negli allevamenti deve diminuire per migliorare il benessere animale e ridurre le emissioni. Un report dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare mette a fuoco il “cuore del problema della zootecnia intensiva”, come osserva Greenpeace. Ma a livello europeo l’Italia è allineata agli interessi industriali

“Il benessere dei polli da carne nell’allevamento” è il titolo di un corposo studio scientifico redatto dal gruppo di esperti dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) sulla salute e il benessere degli animali su richiesta della Commissione europea.

L’analisi -presentata il 28 marzo a Parma, dove ha sede l’Efsa- identifica 19 conseguenze altamente rilevanti per il benessere dei polli, tema a cui abbiamo dedicato la copertina del numero di febbraio 2023 di Altreconomia: disossamento, stress da freddo, disturbi gastro-enterici, stress di gruppo, stress da manipolazione, stress da calore, stress da isolamento, incapacità di eseguire comportamenti di comfort, incapacità di eseguire comportamenti esplorativi o di foraggiamento, incapacità di evitare comportamenti sessuali indesiderati, disturbi locomotori, fame prolungata, sete prolungata, stress da predazione, limitazione del movimento, problemi di riposo, sottostimolazione e sovrastimolazione sensoriale, danni ai tessuti molli e al tegumento e disturbi ombelicali.

Il paper, quindi, offre una serie di raccomandazioni su criteri quantitativi o qualitativi per rispondere a domande specifiche sul benessere dei polli da carne, relative alla selezione genetica, alla temperatura, alla restrizione del mangime e dell’acqua, all’uso di gabbie, alla luce, alla qualità dell’aria e alle mutilazioni negli allevamenti intensivi.

Inoltre, vengono indicati dei requisiti minimi -legati a variabili come densità di allevamento, dimensioni del gruppo, nidi, fornitura di lettiera, posatoi e piattaforme, abbeveratoi e mangiatoie, veranda coperta e spazio all’aperto- per migliorare il benessere all’interno di un allevamento di polli da carne.

Tra le raccomandazioni facili da comprendere c’è quella relativa alla densità di allevamento: se “superiore a 11 chilogrammi per metro quadrato aumenta la dermatite delle zampe, riduce la capacità di camminare e compromette il comfort e i comportamenti esplorativi”, spiega il gruppo di ricerca dell’Efsa. Per capire, 11 chilogrammi per metro quadrato è la massa complessiva dei polli che condividono lo spazio di un metro quadrato all’interno dell’allevamento. “Si dovrebbe applicare una densità di allevamento massima di 11 chilogrammi per metro quadrato per consentire ai polli da carne di esprimere un comportamento naturale, di riposare adeguatamente e di sostenere la salute”.

Lo stesso studio, peraltro, rileva come oggi la densità di allevamento massima “nella produzione biologica” è di 21 chilogrammi per metro quadrato, mentre i polli da carne convenzionali possono essere tenuti fino a 42. Questo significa che anche negli allevamenti intensivi biologici, come quello in corso di costruzione da parte di Fileni a Maiolo, in Alta Valmarecchia, contro cui si basse il Comitato per la Valmarecchia, la densità permessa è quasi doppia rispetto a quella che garantirebbe un maggior benessere animale.

“Da anni, la lobby zootecnica sostiene che l’allevamento intensivo sia positivo per il benessere degli animali allevati, ma i Pareri dell’organo scientifico dell’Ue dimostrano che ha torto”, commenta il paper Olga Kikou, direttrice dell’organizzazione non governativa Compassion in World Farming Eu. “Siamo felici che l’Efsa abbia confermato che allevare gli animali in gabbia è dannoso per il loro benessere e che è necessario ridurre la densità di allevamenti dei polli allevati per la loro carne, prevenire le mutilazioni e allevare razze a crescita lenta. L’Ue deve dotarsi di nuove leggi che siano basate su prove scientifiche per tutti gli animali allevati a fini alimentari, correggendo le norme obsolete e inadeguate attualmente in vigore. I pareri scientifici pubblicati ieri offrono delle prove inconfutabili, che screditano gli sforzi dell’industria e di alcuni ministri di rinviare o sabotare l’attesa revisione delle norme europee per il benessere animale”, conclude.

La densità degli animali all’interno degli allevamenti è uno degli elementi di merito della “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010 relativa alle emissioni industriali”, proposta su cui i ministri dell’Ambiente europei hanno raggiunto un accordo di massima lo scorso 16 marzo.

L’esigenza di monitorare le emissioni degli allevamenti intensivi deriva non tanto da considerazioni relative al benessere animale, ma dal fatto che queste “fabbriche” di latte e carne (di vacche e vitelli, di suini, di polli) sono responsabili del 60% delle emissioni di ammoniaca e del 43% delle emissioni di metano dell’Unione europea. Il primo è precursore del particolato sottile PM 2.5, che nel 2020 ha causato oltre 230mila morti premature in tutta Europa; il secondo è “un gas serra a vita breve ma potente” (come spiega il Materiale di approfondimento realizzato dalla Fondazione Cmcc, che ospita il Focal point dell’Ipcc per l’Italia, sulla base delle informazioni ufficiali dello stesso Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) che dev’essere ridotto del 34% da oggi al 2030.

L’accordo raggiunto prevede che gli allevamenti con più di 350 “unità di bestiame adulto” (280 per gli avicoli) e con una densità superiore a due unità di bestiame per ettaro siano classificati come allevamenti intensivi e inseriti nella direttiva sulle emissioni industriali. Il numero di animali da considerare come “unità di bestiame adulto” dipende dalla specie allevata: lo studio alla base della valutazione d’impatto della Commissione europea traduce, in media, un capo di bestiame in 1,4 mucche, 4,3 maiali o 48 polli. Ciò significa che la proposta lascia fuori dalla direttiva i grandi allevamenti con meno di 490 mucche da latte, 1.500 maiali o 13.500 polli.

“I ministri europei hanno finalmente riconosciuto il cuore del problema della zootecnia intensiva: troppi animali allevati in aree agricole insufficienti per nutrirli in modo sostenibile e assorbire adeguatamente i loro rifiuti. Identificare il problema è un buon inizio ma i ministri sembrano temere ancora troppo l’ira delle lobby del settore per indurli a ridurre effettivamente l’inquinamento prodotto da queste attività” ha spiegato Marco Contiero, direttore delle politiche agricole di Greenpeace Europa.

“L’allevamento di bovini o suini in installazioni con regimi di produzione estensiva -evidenzia un passaggio del testo approvato dal Consiglio- dovrebbe essere escluso dall’ambito di applicazione della direttiva emissioni industriali, in quanto contribuisce positivamente alla tutela del paesaggio, alla prevenzione degli incendi boschivi e alla protezione della diversità biologica e degli habitat. L’esenzione dovrebbe applicarsi alle installazioni con allevamenti di bovini o suini a pascolo a bassa densità di allevamento, in cui gli animali sono tenuti all’aperto per gran parte dell’anno. La superficie usata per il calcolo della densità dovrebbe essere utilizzata per il pascolo degli animali nell’installazione o per la coltura di foraggi utilizzati per l’alimentazione degli animali nell’installazione”.

È la prima volta che viene preso in considerazione non solo il numero di animali allevati ma anche la loro densità, per distinguere le attività zootecniche intensive da inserire tra gli impianti industriali inquinanti e quelli che invece rimangono fuori.

Secondo Simona Savini, della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, è “molto preoccupante che l’Italia sia tra i pochi Paesi europei a non avere accolto la revisione della direttiva europea che include per la prima volta gli allevamenti intensivi di bovini tra le industrie inquinanti, continuando a minimizzare gli impatti sul clima. Ancor più se pensiamo che gli enormi quantitativi di ammoniaca prodotti dagli allevamenti sono la seconda causa di formazione di polveri fini nel nostro Paese, uno degli inquinanti atmosferici che ogni anno miete più vittime. Soprattutto in Pianura Padana, considerata la ‘camera a gas d’Europa’”. L’isolamento scelto del governo italiano sulla direttiva sulle emissioni inquinanti -una difesa di interessi industriali a discapito della qualità della vita- è spalleggiata dalle principali organizzazione di categoria in ambito agricolo. Tra le più agguerrite c’è Coldiretti, che l’ha definita “direttiva ammazza stalle”.


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