Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Intervista

Il movimento femminista e il malinteso “punitivo” del diritto penale

Jessica Podraza © unsplash

Nel suo ultimo libro “Il malinteso della vittima”, la sociologa Tamar Pitch ricostruisce come governi e movimenti dal basso, inclusi gruppi che promuovono i diritti delle donne, abbiano fatto proprio un approccio basato su sicurezza e sanzione. Ma questa non può essere l’unica risposta a questioni sociali e politiche. L’abbiamo intervistata

“Ci sono oggi movimenti che si richiamano al femminismo che sono coinvolti dalla e nella cultura punitiva dominante. Si vede nel diritto penale una possibile risposta alle rivendicazioni che si sostengono. A me sembra un passo indietro notevole”. Non usa mezze misure Tamar Pitch, già docente di Filosofia del diritto e di Sociologia del diritto all’Università di Perugia, nel criticare l’adesione di alcuni movimenti a un approccio che definisce “punitivo” rispetto a temi sociali e politici. E non a caso ne “Il malinteso della vittima”, il suo ultimo libro pubblicato nel settembre 2022 dalle Edizioni Gruppo Abele, Pitch analizza due questioni, la regolamentazione della prostituzione e la gestazione per altri, per cui alcuni gruppi femministi hanno invocato e sostengono soluzioni penali. “Una soluzione ‘facile’ che non sbroglia la matassa su temi estremamente complessi e certamente divisivi nel femminismo -osserva-. Ma un approccio simile può portare solo a conseguenze negative”.

Professoressa Pitch nel libro nota come nelle nostre società sia in atto uno slittamento dal “paradigma dell’oppressione” al “paradigma della vittimizzazione”. Che cosa significa?
TP L’uso del potenziale simbolico del penale tende ad appiattire la scena sociale e politica nel confronto/conflitto esclusivo tra due soggetti, individuati, in linea di principio, solamente rispetto all’essere capaci di intendere e volere: i cattivi e i buoni, i criminali e le vittime. Il paradigma dell’oppressione disegna invece una condizione complessa, laddove “l’oppressione” riguarda l’intera biografia dell’individuo, connettendolo ad altri e altre nella stessa condizione. Mentre si è vittima solamente a seguito di un particolare atto, fenomeno o problema. Scrivevo di questo cambiamento di paradigma già nel 1989. All’epoca lo slittamento da oppressione a vittimizzazione mi sembrava rispondere all’intenzione di reintrodurre soggetti sulla scena politica e sociale. Penso alla campagna del movimento femminista per cambiare la legge sulla violenza sessuale: si cercava di introdurre dei soggetti con “nome e cognome” su una scena fino allora dominata dal riferimento al “sistema”. Questo slittamento però è proseguito e ha fagocitato tutto.

Con quali conseguenze?
TP Oggi per essere ascoltati, legittimati come soggetti politici non ci si definisce come sfruttati o oppressi ma come vittime. E questo ha molto a che vedere, semplificando, con la presa della cultura punitiva, con l’uso sistematico del potenziale simbolico del penale da parte di governi e movimenti. Io credo che ciò sia evidente anche nel prevalere di una politica delle identità su una politica che cerchi di coniugare “differenze” con “disuguaglianze”.

Cosa intende per “potenziale simbolico del penale”?
TP La scena penale, quella individuata nel processo, ma non soltanto, è molto evocativa. L’appello al diritto penale può avere molti scopi, molte funzioni. Si possono chiedere più pene, più criminalizzazione perché si pensa che in quel modo il fenomeno che si vuole combattere diminuirà. Oppure per ragioni pedagogiche e simboliche, in quanto diritto e giustizia penale dicono bensì soltanto ciò che è lecito e ciò che non lo è, ma in qualche modo vengono invece utilizzati per significare ciò che è “male” e ciò che è “bene”. Ed è questo secondo aspetto che secondo me prevale. Il linguaggio penale, diciamo così, è fortemente evocativo e viene utilizzato dai governi, che ne hanno fatto un uso molto vasto negli ultimi trent’anni, ma anche da molti altri soggetti sociali e politici.

Tra cui anche parte di quello femminista?
TP Io definisco femminismo punitivo quei soggetti, quelle mobilitazioni che richiamandosi al femminismo e alla difesa delle donne chiedono l’introduzione di nuovi reati o l’aumento delle pene per reati che già esistono. Prendo come esempio due mobilitazioni: quella per introdurre un divieto universale di gestazione per altri e quella per introdurre ovunque il modello nordico di regolamentazione della prostituzione, che prevede la criminalizzazione dei clienti. Prostituzione e gestazione per altri sono ovviamente questioni complesse -sulla prostituzione, ad esempio, il femminismo si è sempre diviso- ma che se vengono affrontate solo dal punto di vista penale non possono che aggravare la situazione, perché peggiorano le condizioni delle donne, di chi si prostituisce, di chi porta avanti la gravidanza, dei figli che nascono. Usare il diritto penale non sbroglia la matassa e dal punto di vista dei movimenti che si battono per la libertà delle donne a me sembra un passo indietro notevole. Anche perché queste richieste rilegittimano la giustizia penale: negli anni Settanta la richiesta principale dei movimenti femministi era semmai la depenalizzazione dell’aborto volontario. Nel clima antiautoritario dell’epoca, il femminismo svolgeva una profonda analisi critica di istituzioni come la famiglia, il carcere, il manicomio. Ma oggi si è perso questo aspetto. Che poi sulla prostituzione l’assurdità è che si parla esclusivamente della prostituzione in strada, quella visibile, perché per tutto il mondo online sarebbe difficile la criminalizzazione del cliente.

Il libro “Il malinteso della vittima” è stato pubblicato il 14 settembre 2022 dalla casa editrice Edizioni Gruppo Abele

Questo ultimo aspetto c’entra con l’ossessione dei governi a “nascondere” ciò che non si ritiene “decoroso”?
TP Fare la guerra ai “poveri visibili” viene giustificato con il ricorso all’idea che questo produca maggior percezione di sicurezza per i cittadini “perbene”. E così si fa la guerra ai poveri e non alla povertà: oggi si demonizza, per esempio, il reddito di cittadinanza e si ostacola la vita di chi vive per strada. Si divide la popolazione tra i “perbene” e i permale, da cui i perbene rischiano di essere vittimizzati. Questo lo troviamo nella ratio dei cosiddetti “Decreti sicurezza” e in molte ordinanze adottate dai Comuni che criminalizzano una serie di condotte classificate come non “decorose”, dalla prostituzione in strada al dormire sulle panchine. Ma questo anche perché è completamente cambiato il senso che si dà al termine sicurezza.

Cioè?
TP Direi che è una questione quasi generazionale. In Italia, almeno fino alla metà degli anni 80, quando si parlava di sicurezza si intendeva perlopiù la sicurezza sociale. Successivamente questo termine ha significato sempre di più l’immunizzazione dai rischi di diventare vittima di criminalità di strada. E oggi questo resta il significato principale di sicurezza nel dibattito pubblico: le altre declinazioni di sicurezza, sociale, sanitaria, sul lavoro sono passate in secondo piano. Ma la percezione di insicurezza, lo dimostrano diversi studi, non è dovuta alla criminalità di strada bensì alla precarizzazione del lavoro, al mutamento della fisionomia delle nostre città e così via. I governi lo sanno ma preferiscono non investire sul versante della sicurezza sociale. Anzi spesso si oppongono alle misure sociali.

Nel libro cita il “reddito di cittadinanza” come esempio eloquente di quello che sta spiegando. Perché?
TP Perché ripropone la suddivisione tra poveri meritevoli e poveri immeritevoli che esiste almeno dal 1500. I primi sono coloro che accetterebbero qualsiasi lavoro per non dipendere dagli altri e dalle risorse dello Stato o coloro che non possono lavorare, come i bambini, gli anziani, i malati. Quelli immeritevoli sono indicati come tali perché, nel sentire comune, invece di spaccarsi la schiena hanno il reddito di cittadinanza (Rdc). Questa divisione è stata molto presente prima e durante la campagna elettorale. La richiesta della riforma dell’Rdc si basava su questo. Matteo Renzi l’ha addirittura definito “reddito di criminalità”. L’idea è che i poveri restano poveri perché sono immersi in una cultura che non li fa muovere dalla loro condizione. E l’attacco al welfare degli ultimi trent’anni si basa proprio su questo assunto, che è tanto attuale quanto risalente nel tempo. Alcuni studiosi, tra cui Lorenzo Coccoli, sottolineano come questa divisione tra meritevoli e immeritevoli, in Europa, emerga nel contesto del passaggio della gestione della povertà dalle Chiese al potere secolare: la povertà cessa di essere vista come occasione di carità, e diventa una questione di ordine sociale e ordine pubblico.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati